L’invettiva di Sorrentino contro i napoletani
Con Parthenope di Sorrentino, emerge la forza del grande cinema in grado di far discutere tanti che il film non l’hanno neppure visto
L’invettiva di Sorrentino contro i napoletani
Con Parthenope di Sorrentino, emerge la forza del grande cinema in grado di far discutere tanti che il film non l’hanno neppure visto
L’invettiva di Sorrentino contro i napoletani
Con Parthenope di Sorrentino, emerge la forza del grande cinema in grado di far discutere tanti che il film non l’hanno neppure visto
Con Parthenope di Sorrentino, emerge la forza del grande cinema in grado di far discutere tanti che il film non l’hanno neppure visto
La forza del grande cinema è (anche) quella di far discutere tanti che un film non l’hanno neppure visto o almeno non ancora. È il caso di Parthenope di Paolo Sorrentino e in particolar modo dell’ormai famosa “invettiva“ fatta recitare dal cineasta premio Oscar ad una delle protagoniste contro Napoli e in modo più specifico i napoletani. Una Luisa Ranieri in look da Sophia Loren degli anni ruggenti a cavallo fra i ‘60 e ‘70, che sputa veleno sull’impossibilità di trovare la felicità nella città più bella del mondo. Decanta il trovare rifugio al nord, per cercare la felicità, se stessi, un senso alla vita. Come scritto, un’invettiva in piena regola, straniante solo per chi ha una conoscenza molto superficiale di Paolo Sorrentino, della sua poetica e di un affetto fuori discussione per la città d’origine. Difatti equilibrata da un’altra “invettiva“ di senso opposto, una dichiarazione d’amore senza limiti, ma molto meno disturbante.
Eppure in quelle parole taglienti riservate ai napoletani, a un modo di intendere la vita sempre in bilico fra una visione agiografica di se stessi e l’incapacità di mettere mano ai problemi di sempre, c’è tanta sostanza. Ha un valore anche ricordare quanti grandi napoletani si siano esercitati nell’invettiva prima di lui. Eduardo De Filippo su tutti, di cui proprio oggi ricorre il quarantennale della scomparsa.
L’invettiva in Parthenope andrebbe forse presa un po’ più alla lettera: anche se al cospetto di un maestro del cinema, non è detto che la chiave di lettura non possa essere esattamente quella che sembra. Avete letto la sintesi delle parole affidate da Paolo Sorrentino a Luisa Ranieri: possiamo considerarle sbagliate? Per loro natura, sono anche una provocazione. Mirano a colpire, a suscitare sdegno, ma al netto di tutto questo non raccontano un pezzo di verità? Dirselo ci rende (parlo in prima persona, perché sono napoletano e da Napoli sono andato via per lavoro, quindi potrei comodamente ricadere nel cliché), indegni di essere definiti figli di Partenope (senza l’’h’)? O molto più semplicemente sono decenni che non riusciamo a guardarci fino in fondo allo specchio?
Scrivevamo solo pochi giorni fa dello sconcio dei bambini in giro armati, impegnati nell’unica scuola che conoscono: quella del “boss“. Sottolineare che un fenomeno del genere, in Italia, esista solo a Napoli non crediamo faccia di noi degli irrispettosi, ingrati o immemori. È anche possibile che un uomo come Paolo Sorrentino e tanti altri come lui siano più innamorati di Napoli, rispetto a chi vorrebbe parlare solo del luccichio abbagliante della città, della sua immagine e della sua cultura travolgente, di cui proprio Sorrentino è uno splendido rappresentante.
La domanda da porsi, per concludere, è quanti napoletani siano pronti a offendersi o a fare spallucce davanti all’invettiva in Parthenope: più ne troveremo e più strada impervia dovremo percorrere per uno scatto reale, che non sia solo vuoto orgoglio di parte.
Di Fulvio Giuliani
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