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Quando la world music nacque in Africa

L’Africa e la nascita della cosiddetta world music, che fonde elementi etnici e folk a generi di più largo consumo

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L’Africa e la nascita della cosiddetta world music, che fonde elementi etnici e folk a generi di più largo consumo

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L’Africa e la nascita della cosiddetta world music, che fonde elementi etnici e folk a generi di più largo consumo

Nel 1984 Paul Simon, in un momento di crisi artistica e affettiva, accettò di produrre il disco di una giovane cantante, Heidi Berg. Per dare un’idea delle sue predilezioni musicali, Heidi prestò al cantautore jerseyano una cassetta di mbaqanga, uno stile di strada tipico di Soweto nell’area urbana di Johannesburg. Le canzoni comprese in “Accordion Jive Hits, II” – e in particolare “Gumboots” – suonavano per Simon come «un’ottima musica estiva, una musica allegra» che gli ricordava il rhythm and blues degli anni Cinquanta. Folgorato dall’esperienza, chiese ai vertici della sua etichetta discografica, la Warner, di identificare gli artisti che avevano inciso il nastro. Con l’aiuto del produttore Hilton Rosenthal di origine sudafricana, si riuscì a risalire al gruppo Ladysmith Black Mambazo. Il progetto per Heidi Berg era già stato accantonato: Simon aveva ora intenzione di volare in Sudafrica e scrivere un album tutto suo con l’aiuto della ritmica nera.

La metà degli anni Ottanta non era però il momento più propizio per questo genere di cose: l’Onu aveva sensibilizzato scrittori, artisti e musicisti ad attuare un vero e proprio ‘boicottaggio culturale’ nei confronti del governo sudafricano e della sua politica di apartheid. Consapevole delle critiche che avrebbe attirato su di sé ma anche lucidamente convinto della chance che avrebbe potuto dare alla musica africana per farsi apprezzare a livello globale, Paul fece alcune sessioni di registrazione con musicisti del luogo (tra cui Youssou N’Dour e Joseph Shabalala, leader dei Ladysmith). Grazie a un lavoro certosino di rimissaggio e rimodulazione espressiva durato molti mesi, Simon tirò fuori dal cilindro “Graceland”, uscito il 25 agosto 1986 per l’inizialmente scettica Warner. Un disco straordinario: il rock e il pop si mescolano allo zydeco e a profonde sonorità dal Continente nero. Nasce così la cosiddetta world music, che fonde elementi etnici e folk a generi di più largo consumo.

«Come in un’opera teatrale, l’atmosfera dovrebbe continuare a cambiare. Una canzone seria può portare a una canzone astratta, che può essere seguita da una canzone divertente» spiegò lo stesso Simon in un’intervista al “New York Times”. La title-track fa esplicito riferimento alla casa di Elvis Presley a Memphis, Graceland appunto: non soltanto un viaggio fisico (come quello in Africa), ma una direzione spirituale, un pellegrinaggio interiore per rivitalizzare la speranza e l’amore per la musica. E rinnovarsi. «Mi sono reso conto – dichiarò ancora Simon – che nella musica africana i ritmi cambiano sempre leggermente e che la forma di una melodia è spesso dettata dalla linea di basso piuttosto che dalla chitarra. Dal punto di vista armonico, la musica africana consiste essenzialmente in tre accordi maggiori – ecco perché suona così felice – quindi potevo scrivere quasi tutte le melodie che volevo in una scala maggiore». Al di là della bellezza timbrica degli arrangiamenti, il valore dell’album è ovviamente nel (sottile) messaggio politico: ad esempio, in “Under African Skies” la figura di Giuseppe diventa la duplice immagine del Nuovo Testamento e di un africano diseredato.

“Graceland” vendette sedici milioni di copie e ottenne nel 1987 il Grammy Award come album dell’anno. Nel 2007 fu inoltre incluso nella National Recording Registry per l’assoluto spessore storico e culturale.

di Alberto Fraccacreta

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