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“Rai Amara” e il caso Amadeus

Rai, Il caso Amadeus è, purtroppo, una sorta di racconto letterario della nazione o un’autobiografia nazionale in chiave canora

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“Rai Amara” e il caso Amadeus

Rai, Il caso Amadeus è, purtroppo, una sorta di racconto letterario della nazione o un’autobiografia nazionale in chiave canora

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Rai, Il caso Amadeus è, purtroppo, una sorta di racconto letterario della nazione o un’autobiografia nazionale in chiave canora

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Rai, Il caso Amadeus è, purtroppo, una sorta di racconto letterario della nazione o un’autobiografia nazionale in chiave canora

Sono uno di quegli italiani – esiste anche questa anomala categoria di persone – che non hanno il televisore ma pagano il canone Rai. In chiave umoristica e non drammatica, è un po’ come non avere la sanità e pagare le tasse (come accade per una porzione non piccola del Mezzogiorno dal quale scrivo e ciò che scrivo lo verifico non con i dati sociologici, che abbondano, bensì con diretta esperienza della pelle). La Rai è la versione comica della sanità e la sanità è la versione tragica della Rai. Messe insieme ci danno la versione tragicomica di un Paese melodrammatico che s’intrattiene con Sanremo anche nella sala operatoria che non c’è.

Il caso Amadeus è, purtroppo, una sorta di racconto letterario della nazione o un’autobiografia nazionale in chiave canora. Stando ai fatti – ma, ormai, chi vuoi che stia più ai fatti, solo i fessi di Prezzolini – il ‘caso’ è inesistente: c’è un conduttore che cambia canale passando dalla Rai a Discovery firmando un contratto, secondo le cronache, di dieci milioni di euro per quattro anni. Stando ai retroscena, ai miti, alle leggende metropolitane ossia strapaesane si tratta della fine di un rapporto in cui Amadeus non sopportava più i dirigenti Rai e i dirigenti Rai non sopportavano più Amadeus e, dunque, sarebbe uno di quei casi in cui (come diceva mia nonna) Giorgio se ne vuole andare e il vescovo lo vuole cacciare. Ciclicamente questo polpettone – che, parafrasando un titolo nazional-popolare, potrebbe essere battezzato “Rai Amara” – ci viene inflitto come le poesie di Natale con la pretesa di essere un caso politico o un caso culturale o una questione di libertà, mentre i fatti duri a morire ci dicono che si tratta solo dell’avanspettacolo o del retrospettacolo che si è mangiato, insieme, sia lo spettacolo sia la realtà. Tutto ciò non accadrebbe se la Rai – Mamma Rai, come dice la versione melodrammatica – fosse privatizzata e rimanesse di proprietà pubblica un solo canale, che basterebbe e avanzerebbe.

Rai Amara è un pachiderma. I numeri son questi: 600 milioni di debito, 13mila dipendenti, 2.068 giornalisti, 330 dirigenti (fonte: “Corriere della Sera”). Con questi dati nessuna ma proprio nessuna azienda privata starebbe sul mercato, ma la Rai è un’azienda di Stato che coltiva il lusso d’ignorare il mercato. La Rai amarissima è un pezzo della storia dello statalismo novecentesco che è ancora tra di noi. È una specie di Breznev dello spettacolo. A questi dati e fatti bisogna aggiungere la vera stranezza: i partiti politici – che non esistono più, ma quando c’è di mezzo la Mamma che non si scorda mai si fanno sempre sentire – rivendicano il diritto e il dovere di dare la linea e praticano con grande maestria lo sport della lottizzazione. Ricordo ancora il pastone politico del Tg1 che per statuto doveva dare la parola a tutti i politici secondo una cronologia svizzera. È ancora così. Perché in Rai il tempo si è fermato al secolo scorso. Passano le legislature, cambiano i governi ma la Rai non cambia mai. A meno che non cambiate canale. Non è un mistero per nessuno, del resto, che i canali statali siano tre (a parte gli innumerevoli altri) perché uno solo non bastava e dunque, se la Dc aveva RaiUno, il Psi doveva avere RaiDue e il Pci (dopo essersela presa con il sistema Palcolor) doveva avere RaiTre.

Oggi non ci sono più Forlani, Craxi e Berlinguer ma Mamma Rai ha ancora la pretesa di metterci tutti a letto. Ecco perché Amadeus, nonostante sia insipido, è diventato un caso politico-televisivo: è percepito come un Pippo Baudo dei tempi politicamente corretti che viviamo. Va bene per tutti e per nessuno. Noi no, come diceva Vianello.

di Giancristiano Desiderio

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