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Repertori musicali in lucrosa vendita

Eredi e autori verso l’incasso. Le etichette del settore discografico e i milionari del private equity stanno mettendo l’ipoteca sulle produzioni discografiche più importanti degli anni Sessanta, Settanta e degli altri decenni del ‘900.
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Repertori musicali in lucrosa vendita

Eredi e autori verso l’incasso. Le etichette del settore discografico e i milionari del private equity stanno mettendo l’ipoteca sulle produzioni discografiche più importanti degli anni Sessanta, Settanta e degli altri decenni del ‘900.
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Eredi e autori verso l’incasso. Le etichette del settore discografico e i milionari del private equity stanno mettendo l’ipoteca sulle produzioni discografiche più importanti degli anni Sessanta, Settanta e degli altri decenni del ‘900.
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Eredi e autori verso l’incasso. Le etichette del settore discografico e i milionari del private equity stanno mettendo l’ipoteca sulle produzioni discografiche più importanti degli anni Sessanta, Settanta e degli altri decenni del ‘900.
Lou Reed era un visionario, oltre che un genio. «You can’t beat two guitars, bass and drums», una delle massime del musicista newyorkese, è stata mandata a memoria dalle etichette del settore discografico e dai milionari del private equity, che stanno mettendo l’ipoteca sulle produzioni discografiche più importanti degli anni Sessanta e Settanta. Il rock infatti, a differenza di punk o pop, continua ad avere vita lunga. Il repertorio di David Bowie ceduto dai suoi eredi alla Warner Chappell Music per 250 milioni di dollari, pochi giorni prima che Sony acquisisse il catalogo della produzione artistica di Bruce Springsteen per 500 milioni di dollari: cataloghi di inestimabile valore che saranno destinati a uno sfruttamento intensivo per film, spot televisivi, videogiochi e per la pubblicazione di nuove raccolte musicali. L’obiettivo è far soldi, ovviamente. Dicendola meglio: diversificare le fonti d’entrata per evitare la saturazione del sistema musica e produrre profitti negli anni. Dischi e canzoni senza tempo diluiti pertanto su Spotify, YouTube Music, Discord, Apple Music, da cui gli artisti hanno incassato via via sempre meno in termini di royalty. Insomma, come scritto mesi fa dal “Wall Street Journal”, è un affare per tutti. Il rischio compreso nel prezzo è l’eccessiva commercializzazione di brani immortali che – rimontati, compressi, spezzettati – potrebbero perdere una fetta del loro appeal. Poco prima della scelta degli eredi del Duca Bianco e del Boss che, qualora vi fosse stato ancora bisogno, hanno concesso l’agiatezza alle future generazioni familiari, si è letto dell’Universal Music Group che prova ad assicurarsi la discografia di Sting. La strada è stata tracciata parecchi anni fa da Michael Jackson: il re del pop oltre trent’anni anni fa ha acquistato il catalogo dei Beatles per poco meno di 50 milioni di dollari, creando un caso mediatico durato anni e contrasti con gli ex componenti del gruppo. Lo stesso materiale discografico di Jackson è stato ceduto dai suoi discendenti nel 2016 a Sony, sette anni dopo la sua morte, per 750 milioni di dollari. Lo scorso anno Bob Dylan ha venduto tutta la sua produzione discografica alla Universal Music per 400 milioni di dollari. Paul Simon invece ha ceduto a Sony i diritti sulle sue canzoni per i prossimi sessant’anni. Mick Fleetwood (Fleetwood Mac) ha venduto a Bmg. Sempre a Bmg sono andati il catalogo e i diritti d’immagine di Tina Turner. Poi, gli investimenti del private equity: secondo la rivista “Billboard”, 140 milioni di dollari sono finiti ai Red Hot Chili Peppers dalla Hipgnosis Songs Fund. Lo stesso fondo ha investito 150 milioni di dollari per il 50% della produzione di Neil Young.   di Nicola Sellitti

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