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Richard Gere, gentiluomo più che sex symbol

Nato il 31 agosto di settantacinque anni fa a Philadelphia in una famiglia della classe operaia, Richard Gere è un ragazzo dai molti talenti

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Richard Gere, gentiluomo più che sex symbol

Nato il 31 agosto di settantacinque anni fa a Philadelphia in una famiglia della classe operaia, Richard Gere è un ragazzo dai molti talenti

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Richard Gere, gentiluomo più che sex symbol

Nato il 31 agosto di settantacinque anni fa a Philadelphia in una famiglia della classe operaia, Richard Gere è un ragazzo dai molti talenti

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Nato il 31 agosto di settantacinque anni fa a Philadelphia in una famiglia della classe operaia, Richard Gere è un ragazzo dai molti talenti

Qualcuno associa la sua immagine a quella di Julian Kay, il prestante gigolò che intrattiene annoiate signore di mezza età della borghesia newyorchese. Oppure lo ricorda nei panni di Zack Mayo, l’ufficiale in alta uniforme che entra nella cartiera dove lavora l’operaia Paula, la prende in braccio e la porta via con sé. O ancora come il miliardario Edward Lewis che, dai piedi di una scala antincendio dichiara il suo amore alla prostituta Vivian. Quelle sopracitate sono solo tre fra le tante istantanee che hanno contribuito alla creazione del mito di Richard Gere.

Nato il 31 agosto di settantacinque anni fa a Philadelphia in una famiglia della classe operaia, Richard è un ragazzo dai molti talenti. Provetto ginnasta (pratica per la quale otterrà una borsa di studio universitaria), polistrumentista e compositore, il giovane della Pennsylvania si fa notare anche nei circuiti teatrali studenteschi. La scintilla vera e propria scatta durante gli anni dell’università, quando l’allora studente di filosofia comprende che la sua strada è quella della recitazione. I risultati non tardano ad arrivare. Viene scelto per la versione teatrale di “Grease” alla quale prende parte nel 1973, ben cinque anni prima che John Travolta impersoni il protagonista Danny Zuco sul grande schermo. Quando il film esce, Gere ha intanto già preso parte, al fianco di Diane Keaton, al suo primo lungometraggio: “Mr. Goodbar”.

Poi nel 1980 arriva la grande occasione. E anche stavolta c’è di mezzo John Travolta. L’attore italoamericano viene contattato per interpretare il ruolo del protagonista in una pellicola che racconta di un giovane e affascinante gigolò coinvolto, suo malgrado, in un caso di omicidio. Ma al protagonista de “La Febbre del sabato sera” quel ruolo non piace. A quel punto il regista Paul Schrader si rivolge a un agente di spettacolo che gli fa il nome di Gere, reduce da un viaggio in Nepal durante il quale ha abbracciato la fede buddista e fresco vincitore di un David di Donatello per “I giorni del cielo”. È la svolta. Non soltanto è perfetto per il ruolo, ma fornisce un’interpretazione tale da proiettarlo immediatamente nel novero dei sex symbol del nascente decennio. Da lì in poi è un crescendo che ne fa uno dei volti più iconici a cavallo fra i due millenni. Uno status che però non intacca la personalità del divo di Philadelphia, il quale unisce l’impegno sui set a quello sociale. Il tutto continuando a sfornare interpretazioni magistrali in ruoli sempre più sfaccettati, a riprova di un talento versatile e di una figura attoriale unica e in costante evoluzione. In grado di sfuggire alle etichette, prima fra tutte proprio quella legata al suo aspetto fisico nella quale qualcuno voleva incautamente ingabbiarlo.

Negli ultimi anni ha diradato le sue presenze sul grande schermo per dedicarsi principalmente all’attivismo, collaborando in particolare con la Ong spagnola Open Arms. Un impegno, quest’ultimo, che ha portato il suo nome anche nelle cronache del processo del 2018 che vedeva imputato l’allora ministro dell’Interno Matteo Salvini con l’accusa di aver rifiutato l’approdo a Lampedusa a una nave carica di migranti soccorsi in mare. Quando ne fu paventata la comparsa (poi sfumata) in qualità di testimone, un alto esponente politico dell’attuale esecutivo lo definì «un attore in cerca di visibilità». Una battuta mal riuscita. Perché anche, e soprattutto, nella finzione bisogna essere credibili. Proprio come Richard Gere.

di Stefano Faina e Silvio Napolitano

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