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Rolling Stones, ultimi dèi di una stirpe irripetibile

Non si può certo dire che i concerti dei Rolling Stones siano quelli di una volta, ma sono i Rolling Stones. E della Storia bisogna avere rispetto.
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Rolling Stones, ultimi dèi di una stirpe irripetibile

Non si può certo dire che i concerti dei Rolling Stones siano quelli di una volta, ma sono i Rolling Stones. E della Storia bisogna avere rispetto.
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Rolling Stones, ultimi dèi di una stirpe irripetibile

Non si può certo dire che i concerti dei Rolling Stones siano quelli di una volta, ma sono i Rolling Stones. E della Storia bisogna avere rispetto.
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Non si può certo dire che i concerti dei Rolling Stones siano quelli di una volta, ma sono i Rolling Stones. E della Storia bisogna avere rispetto.
Una volta il cantante americano Billy Joel ha dichiarato: «Il rock è morto quando il batterista dei Led Zeppelin John Bonham se n’è andato». Era il 25 settembre 1980 ma la “musica del diavolo” è ancora lì, alimentata da investimenti finanziari principeschi, dal motore della nostalgia delle folle che ne alimentano e ne consumano il mito. Veleggiano verso l’ottantina i grandi del rock. Rughe che innervano i volti, solchi profondi di una vita on the road, voci sostenute da coristi che coprono l’ormai perduta estensione. Il rock è morto. Il rock è vita che continua in un mondo che non lo merita più. In quest’ottica forse va coniugato il concerto dei Rolling Stones, gli ultimi dèi di una stirpe irripetibile. Mick Jagger grida stonato nel microfono, mentre le chitarre di Ron Wood e di Keith Richards vanno in disordine alla ricerca dell’identità della Storia. Alla batteria non c’è più Charlie Watts. I Rolling Stones ora rimasti in tre gli dedicano l’apertura delle serate. Poi eccoli con il loro incedere stanco, gli sguardi da sopravvissuti che scrutano la folla quasi a voler dire: dai, noi ci siamo ancora ma ci siete pure voi. Jagger ondeggia, guida la folla, da sempre è l’officiante dei riti del “diavolo”, l’icona trasgressiva di chi vive quella musica lanciata a metà degli anni Cinquanta da un ragazzo americano di provincia, un certo Elvis Presley. Ma dove sono i Rolling Stones che la stupida retorica giornalistica degli anni Sessanta contrapponeva all’onda d’urto planetaria dei Beatles? Sono in quegli spazi senza confini che si chiamano ricordi, nei flashback di chi sfoggia con disinvoltura capelli bianchi e prominenti maniglie dell’amore. Sono nelle lacrime appena abbozzate di chi, riascoltando la bellissima “Out of Time” del 1966, rivede la propria vita nel breve volgere di una canzone. Sono la celebrazione del passato, sono piccoli grandi figure che quasi si perdono nella dimensione gigantista di scenografie rutilanti, nei colori eleganti di giacche e foulard indossati con nonchalance. Sono nel concetto di immortalità rappresentato da Jagger, dai suoi chilometri di corsa da una parte all’altra del palco, dai suoi movimenti da Tiramolla che alla vigilia delle 79 primavere appaiono per nulla patetici. La Storia ha anche raccontato drammi terribili: la morte di Brian Jones, la separazione di Bill Wyman e l’addio di Charlie Watts, il batterista nobile e taciturno capace di tenere le bacchette come un vero jazzista senza apparire fuori luogo. Oggi i Rolling Stones portano in giro la loro musica suonata da una big band: Chuck Leavell e Matt Clifford alle tastiere, Darryl Jones al basso, le voci di Sasha Allen e Bernard Fowler, i fiati di Karl Denson e Tim Ries. C’è qualcosa di americano nella composizione di questa formazione, qualcosa che ci fa pensare che i Rolling Stones oggi siano più che altro una macchina da intrattenimento. Lo stile crudo e imperioso di una volta ha lasciato lo spazio a qualcosa di più commestibile, forse meno originale. Ma sono i Rolling Stones. E della Storia bisogna avere rispetto. Di Fabio Santini

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