Finalmente è tornata la Prima della Scala a ricordarci quanto il teatro sia misterioso intreccio di mondanità, politica, arte e bellezza. Non ameremo mai abbastanza questa vetrina glamour, forse la più raffinata autorappresentazione di un Paese vista attraverso la ricercata eleganza di chi c’era o la malcelata frustrazione di chi, come noi, non ha mai potuto esserci. Non sempre, per altro, chi è presente si nota di più (vecchio dilemma).
Di sicuro Paganini-Mattarella non ripete, ma per la prima volta ne abbiamo avuto contezza prima della fine dell’esecuzione. Per il resto, è davvero degno di nota il titanico sforzo del regista Davide Livermore di adattare lo spettacolo al linguaggio televisivo.
Macbeth e Banco, fumando sigarette (elettroniche), corrono in auto (una Bmw taroccata) verso le streghe e l’opera si dipana a fatica fra mimi psicotici, videoproiezioni, microcamere posizionate su graticci e piani mobili. Non riusciamo ad arrivarci in fondo, in generale perché la televisione è inconciliabile con questa forma di spettacolo live, ma ancor più, nello specifico, perché l’opera verdiana è la più teatrale di sempre: la sua musica ha una regia dentro, suggerisce spazi, luci, movimenti; la sua unicità risiede principalmente in questo.
Voler incastonare nell’ordito verdiano ogni sorta di artificio tecnico è come voler miscelare acqua e olio: crea grave disagio. Per ciò che riguarda il cast, ci permettiamo di ricordare, forse soli, che un tempo Anna Netrebko era uno splendido soprano lirico. Insistere su certi ruoli drammatici – spingendo ossessivamente per cercare suono e colore, spezzando sovente le frasi per rifiatare – non porterà giovamento alcuno alla cantante russa.
Il teatro scaligero è impenitente complice di certe scelte così come degli ultimi titoli verdiani proposti a Sant’Ambrogio di cui si sarebbe fatto volentieri a meno. Teniamoci stretta la Scala, comunque, senza dimenticare che è una straordinaria vetrina di un negozio sempre più vuoto.
di Fabio Torrembini
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