Sorrentino è la voce dei giovani del Sud
Fabietto, protagonista del film “È stata la mano di Dio” di Paolo Sorrentino affronta la vita, le catene a volte fragili dei legami e diventa Fabio, un giovane del Sud con dei sogni da realizzare.
Sorrentino è la voce dei giovani del Sud
Fabietto, protagonista del film “È stata la mano di Dio” di Paolo Sorrentino affronta la vita, le catene a volte fragili dei legami e diventa Fabio, un giovane del Sud con dei sogni da realizzare.
Sorrentino è la voce dei giovani del Sud
Fabietto, protagonista del film “È stata la mano di Dio” di Paolo Sorrentino affronta la vita, le catene a volte fragili dei legami e diventa Fabio, un giovane del Sud con dei sogni da realizzare.
Fabietto, protagonista del film “È stata la mano di Dio” di Paolo Sorrentino affronta la vita, le catene a volte fragili dei legami e diventa Fabio, un giovane del Sud con dei sogni da realizzare.
C’è una frase nell’ultimo film di Paolo Sorrentino, “È stata la mano di Dio” ora nelle sale cinematografiche, che racchiude in sé tutto il significato profondo che si cela dietro quelle immagini: “Non ti disunire”.
Aldilà dei gusti personali, il potere del cinema non sta tanto nel comunicare espressamente quanto nell’evocare qualcosa; ecco nella frase “Non ti disunire” c’è tutto un mondo che si staglia e che è difficile capire se non lo si è mai vissuto. La pellicola altro non è che l’autobiografia di un giovane Sorrentino (interpretato da Filippo Scotti, nel film Fabietto) in un momento catartico della sua vita: la perdita di entrambi i genitori (nel film interpretati da Toni Servillo e Teresa Saponangelo) mentre tutto intorno una Napoli festosa acclama il suo eroe: Diego Armando Maradona.
È molto facile ergersi ad esperti del settore, commentare minuziosamente un film analizzandone capacità e limiti. È molto facile cadere nella trappola di eccesso di leziosità soprattutto quando non si hanno gli strumenti per dire ciò che si dice. Nel caso del film di Sorrentino è addirittura ridicolo.
Il regista partenopeo ha scritto “È stata la mano di Dio” come se fosse una lettera indirizzata a sé stesso, quello di allora e quello che tutti pensiamo di conoscere adesso. Un film che, neanche troppo velatamente, ha descritto come terapeutico. D’altro canto, mettere in scena la morte improvvisa dei propri genitori e le conseguenze inevitabili in tutta la sua vita avrà necessitato di un lavoro lungo e tortuoso di analisi e introspezione.
I destinatari per eccellenza, però, sembrano essere tutti quei ragazzi del Sud che lasciano la propria terra nella speranza di un futuro migliore che le proprie origini non sono ancora in grado di garantire. “È mai possibile che questa città non ti fa venire in mente nulla da raccontare?” chiede un attore nel film al giovane Fabietto mentre sul grande schermo non si vede altro che blu mare, cielo e le luci del porto di Napoli.
Sorrentino ha messo in scena i legami in tutte le loro sfaccettature, anche quelli che si spezzano: con la famiglia, con la propria adolescenza, con la propria terra. Su quest’ultimo punto, il regista avrà sicuramente assorbito l’insegnamento di un altro grande del panorama partenopeo, Pino Daniele, che nel 1979 cantava “Chi tene ‘o mare ‘o saje porta ‘na croce” (chi ha il mare, lo sai, porta una croce).
Fabietto nasce al Sud e quindi con la naturale propensione a immaginare la vita come un cerchio che si chiude esattamente lungo l’orizzonte del mare. Se l’immagine è poetica, le conseguenze sulla sua personalità insicura e sensibile si trasformano in un peso importante: quello del senso di colpa. Ogni movimento nel film è il movimento di tutti quei giovani ragazzi con la valigia pronta sull’uscio della porta e con le immancabili domande senza risposta: è la società che continua a fallire non colmando l’antico divario fra Nord e Sud o sono io, insieme a tutti gli altri, ad essere un ingrato, un traditore?
La ricerca costante di quella risposta si perde nelle vicissitudini della vita stessa di Fabietto che, alla fine del film, diventa finalmente Fabio, solo e soltanto Fabio: un giovane che ha saltato l’ostacolo che divide la giovinezza dall’età adulta e ha preso posto nel vagone del treno Napoli-Roma per inseguire i suoi sogni.
“La realtà è scadente, la realtà non mi piace più”, ripete spesso nel film, fantasticando sul cinema che gli permetterà di evadere e reinventarsi.
Il film è un invito a diventare chiunque si voglia senza mai perdere le proprie radici. Non è sentimentalismo né retorica ma è la storia dei nostri nonni e della loro valigia di cartone, tramandata di generazione in generazione fino ai giorni nostri. Sorrentino ha “solo” il potere di trasformare paure e angosce in magia e rendere questa realtà un po’ misera in qualcosa a cui legarsi emotivamente come una vecchia tradizione di famiglia.
Il poeta contemporaneo Franco Arminio – che dire poeta ai giorni nostri fa certo un po’ sorridere in una realtà spoetizzata- seguitissimo dalle nuove generazioni sui social per la semplicità dei suoi versi, ha scritto una poesia che calza a pennello, “Lettera ai ragazzi del Sud”:
“Cari ragazzi,
avete dentro il sangue il freddo delle navi
che andavano in America,
le grigie mattine svizzere dentro le baracche.
Era la terra dei cafoni e dei galantuomini,
coppole e mantelle nere,
era il Sud dell’osso, era un uovo, un pugno di farina, un pezzo di lardo.
Ora è una scena dissanguata,
ora ognuno è schiavo della sua solitudine.
[…]
Uscite e ammirate i vostri paesaggi,
prendetevi le albe, non solo il far tardi.
Vivere è un mestiere difficile a tutte le età,
ma voi siete in un punto del mondo
in cui il dolore più facilmente si fa arte,
e allora suonate, cantate, scrivete, fotografate.
Il Sud italiano è un inganno e un prodigio.
Pensate che la vita è colossale. Siate i ragazzi e le ragazze del prodigio”.
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