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Totò, comico ma non fantoccio

Tòtò crebbe in povertà con la sfida di fuggire alla miseria ma si prese la sua rivincita, consapevole che “non si può essere un vero attore comico senza aver fatto la guerra con la vita”. Non accettò mai di rinnegare ciò in cui credeva come quando non interpretò il ruolo di “fantoccio” per il Festival di Sanremo.

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Totò, comico ma non fantoccio

Tòtò crebbe in povertà con la sfida di fuggire alla miseria ma si prese la sua rivincita, consapevole che “non si può essere un vero attore comico senza aver fatto la guerra con la vita”. Non accettò mai di rinnegare ciò in cui credeva come quando non interpretò il ruolo di “fantoccio” per il Festival di Sanremo.

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Totò, comico ma non fantoccio

Tòtò crebbe in povertà con la sfida di fuggire alla miseria ma si prese la sua rivincita, consapevole che “non si può essere un vero attore comico senza aver fatto la guerra con la vita”. Non accettò mai di rinnegare ciò in cui credeva come quando non interpretò il ruolo di “fantoccio” per il Festival di Sanremo.

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Tòtò crebbe in povertà con la sfida di fuggire alla miseria ma si prese la sua rivincita, consapevole che “non si può essere un vero attore comico senza aver fatto la guerra con la vita”. Non accettò mai di rinnegare ciò in cui credeva come quando non interpretò il ruolo di “fantoccio” per il Festival di Sanremo.

Antonio Griffo Focas Flavio Ducas Comneno Porfirogenito Gagliardi De Curtis di Bisanzio, altezza imperiale, conte palatino, cavaliere del Sacro Romano Impero, esarca di Ravenna, duca di Macedonia e di Illiria, principe di Costantinopoli, di Cilicia, di Tessaglia, di Ponte di Moldavia, di Dardania, del Peloponneso, conte di Cipro e di Epiro, conte e duca di Drivasto e Durazzo. In sintesi: Antonio De Curtis, in arte Totò. Una doppia identità incarnata da quel volto asimmetrico, biglietto da visita unico e inconfondibile dell’attore sfrenato e farsesco. Ma allo stesso tempo anche dell’esponente della nobiltà napoletana che vuole l’uomo garbato, generoso e impeccabile nei modi e nei costumi. A plasmarne la personalità fu il fatto di essere nato e cresciuto in estrema povertà, figlio illegittimo e scugnizzo del Rione Sanità la cui sfida quotidiana era fuggire dalla miseria. In età adulta, quando richiese e ottenne di essere adottato da un vecchio nobile napoletano caduto in disgrazia, fu come se volesse prendersi una rivincita, fregiandosi di titoli ereditari che reputava un risarcimento per le avversità incontrate. Soleva ripetere che «non si può essere un vero attore comico senza aver fatto la guerra con la vita». Fu così che per tutti divenne il principe della risata. Memore della fame e della povertà adolescenziali e nel timore di poter perdere tutto quello che aveva conquistato, Totò mai rifiutò alcuna proposta di lavoro. Dal 1937 al 1967, anno della morte, girò 97 film: una media di quattro all’anno escludendo la pausa forzata dalla guerra. Lavorò con 42 registi differenti, tra cui Mastrocinque, Steno, Bragaglia, Corbucci, Pasolini, Monicelli e Fellini. Il grande merito di Antonio De Curtis fu riuscire a non farsi sopraffare dal personaggio di principe della risata, lasciandolo vivere soltanto a cineprese accese. L’integrità con cui affrontava il privato e gli impegni professionali è dimostrata dalla fermezza con la quale sfidò una delle icone italiche per eccellenza: il Festival di Sanremo. Chiamato a presiederne la commissione giudicatrice per scegliere le canzoni da ammettere alla manifestazione, si dimise in polemica con la maggioranza della giuria che aveva escluso un brano che invece a lui piaceva molto. Le parole di spiegazione che affidò alle colonne del settimanale “Oggi” rappresentano una sorta di manifesto al merito, un inno alla competenza spesso mortificata dalla raccomandazione che precede il servilismo. «Esistono presidenti onorari e presidenti effettivi. Gli uni possono attribuire alla loro carica un valore puramente simbolico, gli altri no. Un presidente effettivo ha il dovere di dirigere i lavori dell’organizzazione di cui è a capo, e ciò significa che egli deve equilibrare i pareri discordi, mantenere una determinata linea, far pesare la propria autorità sulla bilancia delle decisioni. Altrimenti, a che serve nominarlo? Ho imparato a lottare sin da ragazzo, e ho sempre lottato, nella mia professione come nella mia vita privata. Può darsi che il mio modo di fare sia un po’ autoritario, e può darsi anche che la mia educazione all’antica mi impedisca di avere quella elasticità che oggi è di moda. Comunque stiano le cose, però, io mi rifiuto di ammettere che il presidente di una commissione come quella del Festival possa essere considerato una figura decorativa o, peggio ancora, un fantoccio. E, soprattutto, non ammetto che la parte del fantoccio tocchi a me». E con queste parole il titolo di principe lo guadagnò anche sul campo. di Stefano Caliciuri 

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