Trent’anni fa se ne andava il “maledetto” romantico
Trent’anni dal suicidio del frontman dei Nirvana, Kurt Cobain. L’ultimo eroe romantico della musica mondiale che diede forma e sostanza alla ribellione giovanile
Trent’anni fa se ne andava il “maledetto” romantico
Trent’anni dal suicidio del frontman dei Nirvana, Kurt Cobain. L’ultimo eroe romantico della musica mondiale che diede forma e sostanza alla ribellione giovanile
Trent’anni fa se ne andava il “maledetto” romantico
Trent’anni dal suicidio del frontman dei Nirvana, Kurt Cobain. L’ultimo eroe romantico della musica mondiale che diede forma e sostanza alla ribellione giovanile
Trent’anni dal suicidio del frontman dei Nirvana, Kurt Cobain. L’ultimo eroe romantico della musica mondiale che diede forma e sostanza alla ribellione giovanile
Sono passati trent’anni da quel colpo di fucile. Ma si provi a chiedere chi erano i Nirvana a un 45enne (o a chi ha da poco scollinato oltre i 50) e se siano stati un pezzo centrale della sceneggiatura in almeno una finestra della sua vita: in cambio si riceverà un’occhiata fulminea di compiacimento di chi c’era quando la band di Aberdeen (che trovò poi la sua formula perfetta a Seattle) mise sottosopra il gonfio e autoreferenziale microcosmo del rock di fine anni Ottanta. Chi aveva l’audiocassetta o il cd, era testimone dell’arrivo del grunge, un’onda di controcultura: dietro ai Nirvana ecco Pearl Jam, Soundgarden, Alice in Chains, Sonic Youth. Chitarre, urla e ribellione, riff, batteria e mal di vivere, disagio giovanile, disperazione. Un flusso senza sconti, doloroso, necessario, accattivante. Una foto generazionale. Kurt Cobain è stato l’ultimo eroe romantico della musica mondiale. Sicuramente l’ultimo grido di rivoluzione autentica, feroce e purtroppo autolesionista. Il suicidio – avvenuto giusto trent’anni fa, il 5 aprile 1994, dopo una lunga e annunciata agonia (poche settimane prima era finito in coma a Roma dopo aver mandato giù 60 pasticche di Roipnol) – lo ha consacrato mito com’era accaduto per Jim Morrison 23 anni prima. Angelici eroi maledetti, consumati dall’incapacità di reggere l’onda di un successo che si andò a innestare su dolori e crepe precedenti. E non c’era Internet, non c’erano i social con il carico di attenzione sulla vita delle star. Il peso della fama e delle aspettative per loro era eccessivo. Ingestibile.
Per cogliere la rivoluzione dei Nirvana si deve andare oltre la mistica, oltre la morte di Cobain arrivata a 27 anni: uno degli eletti del club maledetto ‘dei 27’ con Jim Morrison, Jimi Hendrix, Janis Joplin, Brian Jones dei Rolling Stones. E anche oltre i feticci, i jeans stracciati, le camicie a quadroni, i suoi scompigliati capelli biondi. Se possibile, anche oltre i numeri: “Smells Like Teen Spirit” – brano simbolo di “Nevermind”, secondo album dei Nirvana finito al terzo posto nella classifica all time della rivista “Rolling Stone” – è oggi ben oltre il miliardo di stream a 33 anni dalla sua uscita. Con “Nevermind” si è compiuto il capolavoro dei Nirvana, sebbene il lavoro successivo (“In Utero”) sia forse il manifesto abrasivo e meraviglioso della band americana.
Anche il pubblico generalista iniziò ad ascoltare la voce urlante e fuori sincro di Cobain presa in prestito dal punk degli anni Settanta, con le chitarre distorte che erano confinate nelle palestre sgangherate e nelle radio indie. Spazzati via i tormentoni del decennio precedente e il rock politico e impegnato: era arrivato il successo, forse il colpo finale per un’anima tormentata come quella di Cobain, che però diede forma e sostanza alla ribellione giovanile, a chi si sentiva recluso nella sua cameretta o a disagio nella collettività. Un grido, uno sfogo, un angolo di decompressione, un rifugio. Qualcosa che non è mai più tornato e non si è mai più visto. Qualcosa che forse qualcuno ancora cerca.
Di Nicola Sellitti
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