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Acerbi, Juan Jesus e il razzismo da combattere. Ma sempre

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Il caso Acerbi – Juan Jesus è un’occasione propizia per fare un po’ d’ordine nel come affrontiamo le grandi battaglie d’ordine “morale”

Acerbi, Juan Jesus e il razzismo da combattere. Ma sempre

Il caso Acerbi – Juan Jesus è un’occasione propizia per fare un po’ d’ordine nel come affrontiamo le grandi battaglie d’ordine “morale”

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Acerbi, Juan Jesus e il razzismo da combattere. Ma sempre

Il caso Acerbi – Juan Jesus è un’occasione propizia per fare un po’ d’ordine nel come affrontiamo le grandi battaglie d’ordine “morale”

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Il caso Acerbi è un’occasione propizia per fare un po’ d’ordine nel come affrontiamo le grandi battaglie d’ordine “morale”. Non torneremo nel dettaglio della vicenda che ha coinvolto il giocatore dell’Inter e il suo collega del Napoli Juan Jesus, se non per sottolineare che la sentenza si è limitata a fare il suo lavoro: come sempre (o quasi, nel caso della giustizia sportiva) non può prevedere una condanna senza prove.

Nulla più, dall’assoluzione non è derivata alcuna “condanna” per paradosso ai danni dell’accusatore Juan Jesus, del quale anzi si riconosce la buona fede. Tantomeno, arriviamo così al cuore del nostro ragionamento, la sentenza costituisce in alcun modo uno sdoganamento di espressioni o comportamenti anche lontanamente riconducibili al razzismo. 
C’è chi lo ha sostenuto, alzando la voce in nome o di sacri principi o perché spinto dalla molla del tifo calcistico, una delle più potenti a noi note. 

La sacrosanta battaglia contro il razzismo, che è una battaglia contro il morbo dell’ignoranza, dell’inettitudine intellettuale e dell’insopportabile superficialità, non si potrà mai esaurire in una sentenza. Di più: non può risolversi nella caccia a un colpevole purché sia. Posto che non sono stati sollevati rilievi a carico dell’accusatore, è lampante che il tema “morale” su Francesco Acerbi resti ma il punto è non trasformare quest’ultimo nel comodo capro espiatorio utile a fare un po’ di washing sul tema razzismo. 

Avessero squalificato lui o chiunque per 10 giornate senza prove si sarebbe spalancato un panorama che abbiamo sperimentato nelle sue nefaste conseguenze in altre, recenti battaglie “etiche“. 
Cosa è rimasto del movimento “MeToo”, spinto da una più che doverosa esigenza di ripulire certi ambienti da comportamenti intollerabili, disgustosi e in taluni casi dai rilievi penali? Poco, se non una furibonda contrapposizione ideologica fra chi ha cominciato a vedere violenze e molestie in ogni atteggiamento della sfera professionale che non fosse improntato ad un insopportabile perbenismo e chi ha reagito disgustato alle esagerazioni che hanno distrutto delle vite. 

Facciamo un esempio di stretta attualità: siamo fra coloro che hanno stigmatizzato (non ce ne pentiamo) la deriva volgare del calcio, dai presidenti incontinenti fino al caso Acerbi ma abbiamo anche scritto delle intollerabili manifestazioni anti israeliane allo stadio di Firenze. Lo abbiamo fatto in un silenzio assordante, chiedendoci se non fossimo davanti ad una delle larvate manifestazioni di antisemitismo.

Nessuno sembra essersi posto il problema, concedendo libertà non solo di insulto ma di sostegno a chi quel popolo lo vuole cancellare dalla faccia della terra. Non è anche una forma di razzismo, su chi lo sperimentò come nessun altro nella storia? Ci siamo inventati la formula ipocrita della “discriminazione territoriale” per punire gli inviti al Vesuvio ad eruttare. Per chi inneggia alla cancellazione di uno Stato e di un popolo, nulla.

di Fulvio Giuliani

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