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Da quando Ayrton non corre più

Quando correva Ayrton Senna, sì che era domenica. Cominciamo parafrasando una splendida canzone di Cesare Cremonini

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Da quando Ayrton non corre più

Quando correva Ayrton Senna, sì che era domenica. Cominciamo parafrasando una splendida canzone di Cesare Cremonini

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Da quando Ayrton non corre più

Quando correva Ayrton Senna, sì che era domenica. Cominciamo parafrasando una splendida canzone di Cesare Cremonini

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Quando correva Ayrton Senna, sì che era domenica. Cominciamo parafrasando una splendida canzone di Cesare Cremonini

Domani, 30 anni fa.

Quando correva Ayrton, sì che era domenica. Cominciamo parafrasando una splendida canzone di Cesare Cremonini. Quando correva Ayrton Senna, i suoi camera car portavano sin sui nostri divani la bellezza selvatica, spaventosa e inquietante delle Formula 1 di quei tempi. Mostri di pura meccanica, in cui l’elettronica cominciava a fare capolino anche se il talento, il coraggio sovrumano e il gelido controllo la facevano ancora da padroni. E nessuno era come Ayrton Senna.

Giovane per sempre nelle immagini che ce lo restituiscono pensieroso o sorridente, scapigliato od ordinato, in tuta da pilota, in smoking o costume da bagno. In tutti i casi, istantanee di un’altra epoca. Ben più lontana dei trent’anni che ci dividono dalla sua scomparsa, quel tragico 1’ maggio 1994 a Imola.

Un’era di miti all’apparenza inavvicinabili ma nella realtà molto più simili all’uomo comune di quanto possano mai essere i campioni di oggi, nonostante i social ci regalino l’illusione di una prossimità sparita da tempo.
Ricchissimo rampollo di una ricchissima famiglia brasiliana, Ayrton diventò l’idolo incontrastato dei più poveri fra i poveri delle favelas del suo Paese. Un atleta-pilota credente e devoto, pronto a dichiarare pubblicamente la forza che gli veniva da Gesù, ma anche l’uomo che seppe amare tanto e tante donne, senza avere il tempo di fermarsi.

Come poteva mai fermarsi, del resto, Ayrton Senna? Forse avrebbe voluto farlo quella domenica: lo sguardo perso nel vuoto prima dell’ultimo tragico via sembra continuare a dirci qualcosa, anche se ci sfugge. Così come le ultime notti passate nel solito alberghetto sulle colline emiliane in occasione del Gran Premio di Imola – a un passo dall’autodromo e di incredibile semplicità, se pensiamo alla vita dei suoi eredi odierni – ci restituiscono l’immagine di un uomo in profondo conflitto.

Forse se lo sentiva, forse non ne aveva più o semplicemente non sopportava l’arrivo di quella giovane stella alquanto arrogante dal nome di Michael Schumacher e l’ambiente di una Williams tanto inseguita quanto deludente. Forse era un po’ tutto questo a offuscare l’orizzonte del pilota più iconico ogni epoca.

Ayrton sapeva di non poter essere come gli altri e questa consapevolezza lo condannava a una malinconia di fondo che sembrava non abbandonarlo mai, anche nei momenti dei trionfi assoluti. Vissuti con una gioia che trasudava sempre una parte di disperazione: per quello che non avrebbe comunque potuto vincere, che non avrebbe comunque potuto fare per il suo Paese affogato nelle più atroci contraddizioni.

Siamo convinti – o almeno vogliamo pensarlo – che sarebbe stato felicissimo di essere rimasto nel cuore di tanti e che questo avrebbe contato molto più dei Gran Premi o dei titoli mondiali che la sorte gli ha impedito di vincere. Quelli passano o al massimo restano negli annali.

Per sempre sono le domeniche che non sono più domenica da quando lui non corre più

di Fulvio Giuliani

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