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L’Italia domina in Champions. E pensare che non siamo furbi

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Il calcio made in Italy fa faville in Europa. Ma cosa succederebbe se oltre a sapere lavorare, sapessimo anche venderci?

L’Italia domina in Champions. E pensare che non siamo furbi

Il calcio made in Italy fa faville in Europa. Ma cosa succederebbe se oltre a sapere lavorare, sapessimo anche venderci?
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L’Italia domina in Champions. E pensare che non siamo furbi

Il calcio made in Italy fa faville in Europa. Ma cosa succederebbe se oltre a sapere lavorare, sapessimo anche venderci?
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Arrivati alle semifinali di Champions League, un verdetto è già scritto: il calcio italiano non è così male. Magari non sarà spettacolare, divertente come quello della Premier, ma in termini di efficienza non ha eguali. Anche perché un conto è vincere spendendo 200 milioni, come fatto soprattutto – ma non solo – Oltremanica, un altro spendendone 20. E invece, la Lega che già ad aprile può vantare una matematica finalista in Champions League è la Serie A a cui appartengono 2 delle 4 semifinaliste. Il doppio derby della Madonnina dirà chi volerà in finale tra Inter e Milan. Già scriverlo sembrava fantascienza a inizio stagione. Il calcio nostrano trova un motivo di vanto ancora maggiore sulle panchine: dei 4 allenatori semifinalisti, 3 sono italiani: Pioli del Milan, Inzaghi dell’Inter e il “re” Ancelotti del Real Madrid. Unica eccezione Pep Guardiola, spagnolo e allenatore del Manchester City. Guardando l’andamento del campionato e le (non) vicende mondiali degli azzurri, quanto sta accadendo nella Champions 2023 sembra venire da un mondo parallelo. E invece ci dice una cosa molto chiara, un po’ risaputa ma mai valorizzata fino in fondo: siamo un popolo che sa fare di necessità virtù, capace di colmare con le braccia e la testa, il divario segnato dal denaro. Solo che, a furia di dirlo, pare che abbiamo sviluppato una perversa attrazione verso lo stato di necessità. Il nostro calcio sa lavorare, ma non si sa promuovere. Allargando la visuale sugli altri settori, ci renderemo conto che il discorso va oltre il rettangolo verde. Cosa sarebbe oggi il calcio italiano se, oltre alla qualità e alla quantità del lavoro, avesse la sana furbizia di sapersi promuovere? Negli anni ’90 i Paperoni eravamo noi, ma solo grazie a “interventi spot” del proprietario di turno, rectius patron. Nel frattempo, altrove (Inghilterra su tutti), si investiva nel marketing, nella promozione, nella comunicazione. Si costruivano insomma le basi per rendere solidi i bilanci a venire, attraendo i miliardari come conseguenza, non come unica (e instabile) fonte di salvezza. È arrivato il momento di fare calcio alla maniera italiana, consci della nostra forza. Non è mai troppo tardi per cambiare prospettiva. Di Giovanni Palmisano

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