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LeBron, la fine e l’immortale

LeBron James, un quasi 39enne fuoriclasse che non ha mai smesso di avere fame di basket. Martedì notte giocherà la sua 12esima finale di Conference

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LeBron, la fine e l’immortale

LeBron James, un quasi 39enne fuoriclasse che non ha mai smesso di avere fame di basket. Martedì notte giocherà la sua 12esima finale di Conference

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LeBron, la fine e l’immortale

LeBron James, un quasi 39enne fuoriclasse che non ha mai smesso di avere fame di basket. Martedì notte giocherà la sua 12esima finale di Conference

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LeBron James, un quasi 39enne fuoriclasse che non ha mai smesso di avere fame di basket. Martedì notte giocherà la sua 12esima finale di Conference

Ha messo i sigilli alla saga dei Golden State Warriors, chiudendo il cerchio perché otto anni fa il mito di Curry-Thompson-Green aveva cominciato ad alimentarsi superando in finale i “suoi” Cleveland Cavaliers.

LeBron James è ancora un uomo in missione. Un quasi 39enne con un chilometraggio sulle gambe infinito. Ha ancora fame di basket. Da qualche mese è il miglior marcatore di sempre della Nba, svetta in ogni tipo di classifica, ora vuole un altro titolo Nba con i Lakers per rendere ancora più immortale la sua legacy nello sport americano e mondiale. E’ concepito per competere, ha vinto e perso, nelle finali più sconfitte che vittorie. Ha affrontato quasi da solo la dinastia degli Warriors. E’ ancora la figura chiave della Nba.

La serie vinta dai Lakers sugli Splash Brothers (il duo Curry-Thompson) che quando tirano a canestro si avverte appena il rumore della retina è l’ennesimo indizio che forma la prova: i playoff Nba ci dicono da 15 anni che contro LeBron non esistono i titoli di coda. Mai.

Contro i Denver Nuggets del fenomeno Nikola Jokic, che appena smette la canotta si gode le corse dei suoi cavalli anche nelle gare in Italia, James a partire da martedì notte (in Italia) gioca la sua 12esima finale di Conference. Dal 2011 al 2018 ha giocato in fila le Finals, prima con Miami, poi con Cleveland. Corre, salta, tira, dirige i compagni, esercita la sua presenza mentale sugli avversari: domina dal suo ingresso nella Nba, nell’autunno del 2003. Contro Curry e compagni, alla sesta gara in 12 giorni, ha disposto tecnicamente ed emotivamente della partita, scegliendo quando attaccare, difendere o mettere in ritmo i compagni. Se il corpo ha ovviamente perso per strada qualche cilindrata, la mente è quella di uno scienziato del gioco che rappresenta l’elemento di continuità della Nba che cambia, diventata un carrozzone che produce dollari in continuazione (giro d’affari da oltre dieci miliardi di dollari annui), con le nuove stelle che provano a prendersi il proscenio.

Sono stelle strapagate perché il salary cap sale sempre di più e il nuovo accordo collettivo rende felici atleti e proprietari di franchigie. E se tra le nuove star ci sono atleti speciali ma con poco cervello (Ja Morant si è fatto pizzicare di nuovo su Instagram con una pistola, dopo la punizione della Nba e la sospensione ai Memphis Grizzlies) su tutti si alza ancora lui, il ragazzino dal ghetto di Akron, Ohio, che a 20 anni dal suo esordio è capace di entusiasmare Los Angeles, ancora a lutto per la perdita di Kobe.

LeBron, vinca o perda la serie contro Denver, generando ancora migliaia di commenti sui social tra i suoi seguaci e gli hater, resta lo spot migliore per la Nba, che una volta chiusa la regular season (somigliante sempre più a un circo) poi innesta le marce alte con la fase a eliminazione. E forse non esiste una competizione di questo livello in altre discipline, con un tale concentrato di tecnica, fisicità, pathos, competizione feroce, che porta il corpo al limite estremo della fatica, degli infortuni. E al vertice della Nba al suo meglio c’è ancora lui. Il migliore della sua generazione. L’unico forse che rientra nella conversazione sul più grande di sempre, che affascina come lascia il tempo che trova: James o Michael Jordan. Che fortuna, averli ammirati entrambi.

di Nicola Sellitti

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