Napoli, il giorno dopo la festa
Napoli, il giorno dopo la festa
Napoli, il giorno dopo la festa
24 ore dopo, possiamo dirlo: a Diego sarebbe piaciuta tantissimo. Il Maradona ieri era stretto parente de La Bombonera di Buenos Aires, l’altra culla d’elezione del Diez. La festa scudetto del Napoli è stata di tutti. Un afflato collettivo, una condivisione di sentimenti, un’esplosione di felicità e di colore: l’azzurro, espressione della potenza visiva di Napoli e del Napoli che tanto attira anche i visitatori. E’ stata la cornice di una settimana di feste, liofilizzate tra le gare con Salernitana, Udinese e Fiorentina, non per questo meno potente, incisiva, evocativa. Musica, coreografie, decine di migliaia di bandiere azzurre in movimento, idealmente coordinate da un direttore d’orchestra. Poi, la presentazione all’americana della squadra, della rosa, della dirigenza. Solo boati, dopo quattro ore sugli spalti.
E’ stata una festa davvero unica nel suo genere. Negli ultimi anni si è avvertita una tale partecipazione emotiva solo per l’addio al calcio di Francesco Totti all’Olimpico. Se la malinconia era il sentimento prevalente per il saluto del fuoriclasse giallorosso, al Maradona si è avvertita la stessa gratitudine verso la grandezza ma soprattutto gioia, esibizione muscolare del sentimento di identità partenopea. La consapevolezza tra i tifosi della partecipazione a un momento che resterà per sempre.
Non c’è stata per fortuna la rivendicazione dello scudetto come riscatto di un popolo, del successo in campionato che diventa la password per la rivendicazione sui cori di discriminazione territoriale arrivati da alcune città, da alcune tifoserie. Napoli non ha nulla da riscattare, non deve riscattarsi verso nessuno, quel tipo di narrazione è distante dalla realtà. Piuttosto si avverte tra i napoletani, nella consapevole oscillazione tra estasi e cadute, che è ormai matura la ricerca di un briciolo di normalità, che in dosi omeopatiche non guasta, anzi.
Napoli non è mai stata vittimista durante la festa del Maradona. Ha solo rivendicato la sua unicità. E’ passata attraverso i suoi cavalli di battaglia, canzoni, cori, anche attraverso l’esercizio della retorica che in realtà serve per tramandare la sua storia: i padri diventati nonni, i figli ora alle prese con i doveri della paternità, tra cui il trasferimento di un patrimonio di conoscenze alla generazione successiva, compreso il culto del Napoli e il culto di Diego.
Si è avvertita – sensazione introvabile in altri stadi, anche calorosi e soffocanti di gioia popolare – anche la vicinanza emotiva dei tifosi con chi non c’è più e non ha potuto godersi i gol di Osimhen, le gemme di Kvaratskhelia, gli sprint di Di Lorenzo. Una corrispondenza con l’alto: d’altronde, il culto dei morti è nel dna napoletano, reso sublime dalla meravigliosa prosa di Totò ne ‘A Livella e “… Muorto sì tu e muorto sò pure io; ognuno comme a n’ ato è tale e quale”, la poesia di Eduardo De Filippo che in S’è araputa ’a fenesta stamattina immagina la morte come una dolce nonnina che entra dalla finestra e ci porta per mano alla fine del viaggio.
In un contesto di stordente magia hanno trovato così compimento anche le storie dei protagonisti dello scudetto, da Cristiano Giuntoli, architetto tecnico del trionfo, che saluta con le lacrime agli occhi all’accettazione urbi et orbi della famiglia De Laurentiis, in sfilata dinanzi a quelle curve, anche agli ultras, con cui i rapporti sono stati praticamente inesistenti sino a qualche settimana fa. Forse si è siglato l’armistizio, con il riconoscimento al presidente del Napoli della costruzione politica di un capolavoro di competenza e conoscenze. E se la gioia di Osimhen, di Politano, l’incredulità di Kim sono andate avanti per ore, dopo la partita con la Fiorentina, è salito poi al proscenio Luciano Spalletti, acclamato da 60 mila persone. E’ il premio più alto alla sua carriera, spesso sottovalutata. Non aveva ancora vinto lo scudetto in Italia. L’ha vinto al Napoli.
di Nicola Sellitti
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