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Addio Pelé

Si sapeva che sarebbe accaduto a breve. Pelé è morto, dopo una lunga agonia, a 82 anni
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Si sapeva che sarebbe accaduto a breve. Pelé è morto, dopo una lunga agonia, a 82 anni
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Si sapeva che sarebbe accaduto a breve. Pelé è morto, dopo una lunga agonia, a 82 anni
L’ultimo degli immortali se ne va. Pelé è morto, dopo una lunga agonia, a 82 anni. Si è ammalato di cancro due anni fa e da quando la sua condizione è divenuta pubblica si è generato un moto collettivo di vicinanza sulle sue condizioni, sulle cure, sulla salute di O Rei. Il mondo del calcio, che poco più di due anni fa ha perso Diego Maradona, che poco più di sei anni fa ha dovuto rinunciare a Johan Cruijff, non era pronto a lasciarlo andare. Ad abbandonare quell’idea del pallone genuina, autentica, del calcio che faceva sorridere, innamorare. Lontano da schemi, rituali, logiche da business. Si sapeva che sarebbe accaduto a breve. La sua famiglia attraverso i social ha informato i suoi seguaci della lenta agonia che ha dovuto vivere lo storico numero 10 brasiliano. Che ha dispensato il sorriso fino a pochi giorni fa, guardando dal letto di ospedale le partite del suo Brasile. Uno che è ammirato da Neymar e Mbappe’, osservato con devozione dalla generazione degli anni ’60 e ’70. Uno che è difficile, come accade con il Diez, pensare che sia davvero morto. Per chi l’ha visto giocare, Pelé è stato il calcio. E non solo per i quasi 1300 gol in carriera o per i tre Mondiali vinti con la verdeoro. È stato il calcio fatto di stracci, di cartacce arrotolate, di gioia nella povertà. Delle finte, dei gol impossibili, delle magie. Uno di quelli con tanto talento che si vedeva arrivare la palla in giro per il campo, come avvolta da un fluido. Uno di quelli che le nuove generazioni hanno imparato a conoscere attraverso i video in bianco e nero su YouTube o nei documentari. Pelé è stato il Santos, è stato il Brasile, il futebol bailado che rende ancora unici i brasiliani nel mondo, anche se non c’è traccia di quella qualità. E’ stato “la rovesciata”, mostrata al rallenty in Fuga per la Vittoria, il film con Sylvester Stallone dei primi anni ‘80. È stato il simbolo del Brasile del 1970, la nazionale più forte di sempre, 11 fenomeni con i piedi dolci come il miele, che manco si accorse dell’Italia nella finale di Messico 1970. Ed era un’Italia formidabile, l’Italia di Riva e Rivera. O Rei è stato talmente grande che per legittimare la sua grandezza non ha avuto neppure il bisogno di misurarsi in Europa. Ha scelto solo a fine carriera i New York Cosmos, il soccer americano. I Cosmos, solo per aver avuto in squadra O Rei, sono divenuti una squadra di culto. Ancora oggi. “Un giorno spero di giocare con te in paradiso”, scrisse sui social due anni fa, alla morte di Diego. Con il fenomeno argentino il rapporto è stato controverso. La stima era reciproca, così come era reciproca la consapevolezza di essere stato il più grande di tutti. Si sono beccati, abbracciati, guardati con sospetto. Sulla questione paradiso, dei due, appare più facile che il brasiliano abbia preso l’ascensore verso l’alto. Mentre El Diez, con i suoi tormenti e i suoi folli voli, era un dannato destinato all’Inferno. Nel caso, che coppia, quei due..   Di Nicola Sellitti

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