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Questione di uomini o caporali

Ho avuto l’opportunità e la fortuna di seguire Svizzera-Italia con il campione del mondo 1982 Giampiero Marini che si è concentrato su un aspetto: l’atteggiamento dei calciatori

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Questione di uomini o caporali

Ho avuto l’opportunità e la fortuna di seguire Svizzera-Italia con il campione del mondo 1982 Giampiero Marini che si è concentrato su un aspetto: l’atteggiamento dei calciatori

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Questione di uomini o caporali

Ho avuto l’opportunità e la fortuna di seguire Svizzera-Italia con il campione del mondo 1982 Giampiero Marini che si è concentrato su un aspetto: l’atteggiamento dei calciatori

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Ho avuto l’opportunità e la fortuna di seguire Svizzera-Italia con il campione del mondo 1982 Giampiero Marini che si è concentrato su un aspetto: l’atteggiamento dei calciatori

Ho avuto l’opportunità e la fortuna di seguire l’infausta Svizzera-Italia in compagnia del campione del mondo 1982 Giampiero Marini, bandiera dell’Inter negli anni Settanta e Ottanta e per tanti anni in azzurro. Nessuna particolare sottolineatura di carattere tattico o sui nomi scelti dal commissario tecnico Luciano Spalletti.

La sua attenzione andava tutta su un altro aspetto: l’atteggiamento, il linguaggio del corpo ed espressivo dei ragazzi con indosso la maglia azzurra. Uno sconcerto che è sfociato in sconforto per la pochezza caratteriale, di impegno e di personalità mostrata.

Riavvolgiamo il nastro: Giampiero Marini è un uomo di 73 anni che ha dedicato l’intera esistenza al calcio. Nel 1982, all’età di 31 anni, divenne campione del mondo con il gruppo guidato da Enzo Bearzot. Entrando nello spogliatoio incrociava lo sguardo di Dino Zoff, Gaetano Scirea, Bruno Conti, Claudio Gentile, Fulvio Collovati. Solo per citare alcuni dei più esperti. Dino Zoff non parlava mai, era un uomo di ormai quarant’anni con dei tratti somatici di un’Italia che oggi non esiste più, venuto su lavorando da meccanico in un’autofficina.

Di fianco, il volto smunto e affilato di Paolo Rossi, che da lì a pochi giorni sarebbe diventato per un decennio l’italiano più famoso del mondo. Ne aveva passate di tutti colori. Non si reggeva in piedi ma il suo allenatore non lo avrebbe abbandonato mai.

Ecco, girando lo sguardo, Giampiero Marini fissava il commissario tecnico Enzo Bearzot. Un uomo che leggeva i classici greci, inflessibile davanti alle falsità. D’acciaio quando si trattava di difendere i suoi ragazzi. Pablito su tutti.

Cosa avrebbe visto oggi nello spogliatoio della Nazionale? Qui non si tratta di come stoppi la palla, si tratta di cosa sei. Quegli uomini sapevano di aver raggiunto l’apice della carriera indossando la maglia azzurra. Non cantavano a squarciagola l’inno di Mameli – all’epoca non era di moda – ma quando andavano in campo erano l’Italia e spostavano l’aria. Erano educati, formati alle responsabilità e al rispetto.

I ragazzotti di oggi trasferiscono un senso di incompiutezza e di vacuità spaventoso. Guardi nei loro occhi e non vedi niente, se non in pochissimi. Il problema non sono i tatuaggi, le cremine e la stilosità. Il problema è che dietro questo non c’è niente. Ascoltate uno Jannik Sinner, una Sofia Goggia, un Thomas Ceccon, un Chituru Ali o un Gimbo Tamberi e poi ascoltate il nulla che emerge dalla Nazionale.

A un certo momento abbiamo rivisto i tre goal di Paolo Rossi al Brasile: Marini non è riuscito più a parlare, commosso sino alle lacrime ricordando cosa fu quel gruppo di uomini. Abbiamo letto in quell’improvviso mutismo l’orgoglio di aver fatto il proprio dovere, mettendo a disposizione degli altri tutto quello che si aveva e rendendo felice il Paese.

Chissà se, fra una seduta dall’estetista e un lettino di Formentera, qualcuno avrà voglia di trarne un minimo di ispirazione.

di Fulvio Giuliani

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