Qatar fra dramma e riforme
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                Si moltiplicano le proteste sui Mondiali in Qatar. Eppure, i lavoratori ipersfruttati dall’emirato intravedono le prime tutele: la vera domanda è se continueranno a farlo quando l’Occidente tornerà a disinteressarsene
        
        		
				
	
		
	
		
        
	
		
	
		
        
        
    
Qatar fra dramma e riforme
Si moltiplicano le proteste sui Mondiali in Qatar. Eppure, i lavoratori ipersfruttati dall’emirato intravedono le prime tutele: la vera domanda è se continueranno a farlo quando l’Occidente tornerà a disinteressarsene
        
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Qatar fra dramma e riforme
Si moltiplicano le proteste sui Mondiali in Qatar. Eppure, i lavoratori ipersfruttati dall’emirato intravedono le prime tutele: la vera domanda è se continueranno a farlo quando l’Occidente tornerà a disinteressarsene
        
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AUTORE: Francesco Gottardo
È l’ora dell’indignazione tardiva. Si sa dal 2010 che i prossimi Mondiali di calcio, iniziati domenica scorsa, si sarebbero giocati in Qatar fra molte ombre. Le accuse di corruzione nei palazzi della Fifa. Lo stop alle altre competizioni, che sballa l’orologio biologico di professionisti e tifosi. E soprattutto il costo umano dell’evento: migliaia di vite venute meno – la cifra esatta è di difficile determinazione – nella costruzione dei nuovi stadi, piramidi della modernità. Così c’è chi boicotta, protesta o terrà la tv spenta.
Ma la narrativa del “torneo della vergogna” cela una buona dose di ipocrisia. Ben prima della realizzazione del Lusail Iconic Stadium che ospiterà la finale, l’intera Doha è un prodigio emerso dalla sabbia secondo analoghe procedure. E le grandi democrazie non hanno mai esitato a fare affari con i signori del petrolio: oltre a Cina e India, i principali partner commerciali del Qatar sono i Paesi del G7. Va inoltre considerato un bias cognitivo molto in voga: il giudizio acritico dell’Occidente supponente. Se eliminare la storicità dell’esistenza – l’America che abbatte le statue di Colombo perché simbolo di razzismo – è un esercizio pericoloso, sminuirne la spazialità è ingannevole. I nostri diritti dei lavoratori sono figli di un percorso di civiltà lungo duemila anni. Meno di un secolo fa il Qatar era invece una realtà preindustriale aggrappata all’economia di sussistenza: la pesca subacquea delle perle, dove morire era un rischio quotidiano. Che succeda tuttora nei cantieri – alla forza lavoro d’immigrazione, il 90% del totale – è un dramma. Per superarlo, occorre darvi contesto.
In questo senso, l’odore dei Mondiali ha spinto il Qatar in avanti. Fino al 2020 vigeva il sistema della kafala, tra le componenti più autoritarie del diritto islamico che metteva la manodopera in condizioni di semischiavitù. La sua revisione ha avviato la mobilità del lavoro: i dati dell’International Labour Organization hanno registrato 350mila procedure di trasferimento nel solo 2021. Il Qatar è anche diventato il primo Paese del Golfo a introdurre un salario minimo non discriminatorio per i lavoratori di ogni nazionalità e settore. Ha inoltre varato, fuori tempo massimo, una nuova legge sul limite di ore di lavoro all’aperto nei mesi estivi (più delle scarse misure di sicurezza, il caldo torrido è il principale responsabile dei decessi). Sia il Global Rights Index elaborato dalla Confederazione sindacale internazionale sia il Labour Rights Index dell’Ong WageIndicator Foundation concordano nel progressivo miglioramento del Qatar dal 2015 a oggi: secondo il primo, l’emirato non fa più parte della fascia di Paesi più arretrati per violazione dei diritti.
È poco, ma non niente. La vera domanda è se il trend continuerà anche dopo il triplice fischio della fine del torneo. Di sicuro, l’Occidente avrà girato la testa.
Di Francesco Gottardi
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