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Saper vincere, saper perdere: Julio Velasco e Jannik Sinner

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La finale dell’US Open e l’Italvolley femminile campione del mondo, Velasco e Sinner a confronto

Saper vincere, saper perdere: Julio Velasco e Jannik Sinner

La finale dell’US Open e l’Italvolley femminile campione del mondo, Velasco e Sinner a confronto

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Saper vincere, saper perdere: Julio Velasco e Jannik Sinner

La finale dell’US Open e l’Italvolley femminile campione del mondo, Velasco e Sinner a confronto

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La comfort zone come uno steccato da abbattere, andando a esplorare i propri limiti con curiosità e metodo. Accettando anche il rischio di smarrire le certezze che lo hanno portato alla prima posizione mondiale per 65 settimane in fila. Le parole rese alla stampa da Jannik Sinner dopo la sconfitta con Carlos Alcaraz nella finale dello Us Open spiegano al meglio le chiavi del successo del fenomeno italiano. Sinner ha vinto due prove del Grand Slam nel 2025, ha centrato cinque finali di fila dello Slam, ha vinto Wimbledon. Può fermarlo soltanto Alcaraz. Eppure sente l’esigenza di cambiare, di rivedere l’arsenale dei colpi per reggere l’urto dello spagnolo. Torna a caccia Jannik, dopo essere stato la preda. E per farlo deve evolversi, non ci sono altre strade.

La sintesi – che vale per tutti e in ogni campo di gioco o lavoro – è mai cullarsi sugli allori, aprirsi al cambiamento. Anche se costa sconfitte, costa rapporti umani che si deteriorano. Finché è un tennista ad alto livello, Sinner non conosce ostacoli: chiede tutto a sé stesso, ai suoi collaboratori, li cambia se è insoddisfatto, se ha anche soltanto la percezione che si potrebbe far meglio. Si chiama ossessione e nello sport esiste. È un carburante a volte necessario e bisogna scenderci a patti.

C’è chi l’ha mostrato con i denti, con il testosterone, come Michael Jordan o Kobe Bryant. Ma restando al tennis, l’ha fatto Roger Federer, che alla voce “talento” è magnifico rettore a vita: per sfidare Rafa Nadal, che nei confronti diretti spesso aveva un passo in più, si è aperto alla rivoluzione passando ore ed ore sul campo con Stefan Edberg, genio del gioco a rete negli anni Ottanta e Novanta: più gioco di volo, scambi più brevi, diversa rotazione al servizio.

Per competere si fa così. L’ha fatto Nole Djokovic, che nella seconda parte della carriera è praticamente migliorato in tutto il repertorio: il serbo non sapeva cosa fosse una volée, ora gioca di volo come pochi. L’ha fatto Nadal, che ha dovuto rivedere totalmente il suo piano partita sul cemento, per non incassare scoppole in fila da Djokovic. Facile a scriversi, assai meno nella pratica quotidiana. E riuscirci è da fuoriclasse, categoria dello spirito e del corpo cui Jannik appartiene senza alcun dubbio (chi invece è scettico meglio che si dia ad altro). E Alcaraz è soltanto uno strumento per alzare l’asticella con sé stesso.

L’evoluzione, l’apprendimento continuo, è uno dei dogmi su cui ha costruito la sua leggenda – non si usano parole a caso – il Maestro Julio Velasco, che in 40 anni di carriera ha trasformato il modo di pensare l’allenamento, concentrandosi non solo sulle competenze tecniche ma anche sulla forza mentale, sulla capacità di gestire l’errore.

“Un punto alla volta” è l’assioma del Maestro – cultore di Socrate, con un background politico e sociale in Argentina – distribuito in dosi non omeopatiche alle sue atlete anche nei drammatici time out contro Brasile e Turchia, con le azzurre sotto nel punteggio e a un passo dal baratro. E invece sono campionesse del mondo (dopo 23 anni), a un anno dall’oro olimpico, con il contorno succulento di due Nations League per l’Italvolley, di diritto nella hall of fame dello sport italiano.

Velasco si è sempre guardato bene dall’ossessione per il successo. «Siamo ossessionati da quel che non abbiamo» va ripetendo ancora, a proposito del mancato oro olimpico con la generazione di fenomeni degli anni Novanta.

Il Maestro ha saputo trasformare un gruppo di talenti ormai sperduti in una rosa di dieci titolari. Paola Egonu come Kate Antropova, l’individualismo da star nel recinto del collettivo. E chi ha deciso di rifiutare la maglia azzurra ha perso il tram della vita professionale. Sono arrivati i trionfi. E se ai Giochi di Parigi è filato davvero tutto dritto, ai Mondiali thailandesi (fra infortuni e cali di forma) il successo finale sembrava ormai una chimera. Invece è arrivato. E non è stato certo un colpo di fortuna.

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