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Simone Moro: in vetta con poco ossigeno, ma quello buono

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Simone Moro è un uomo della storia eccezionale. Lo abbiamo incontrato ieri al Teatro Dal Verme di Milano, in occasione degli Inclusion Days organizzati da Sky Italia

Simone Moro: in vetta con poco ossigeno, ma quello buono

Simone Moro è un uomo della storia eccezionale. Lo abbiamo incontrato ieri al Teatro Dal Verme di Milano, in occasione degli Inclusion Days organizzati da Sky Italia

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Simone Moro: in vetta con poco ossigeno, ma quello buono

Simone Moro è un uomo della storia eccezionale. Lo abbiamo incontrato ieri al Teatro Dal Verme di Milano, in occasione degli Inclusion Days organizzati da Sky Italia

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Simone Moro è un uomo della storia eccezionale. Lo abbiamo incontrato ieri al Teatro Dal Verme di Milano, in occasione degli Inclusion Days organizzati da Sky Italia e che oggi vedranno l’appuntamento con SkyTG24 Live In Milano, il format incentrato sui temi di maggiore attualità.

Simone Moro è innamorato della montagna, della natura più selvaggia e incontaminata (una volta) ma ancor più dell’esplorazione. Di un alpinismo “vecchia scuola”, come richiamato dal titolo del suo libro in uscita proprio in queste ore: “Gli ottomila al chiodo”.  Una riflessione, senza giudizi ma non priva di tratti amari, su cos’era l’alpinismo nei decenni della purezza e come si sia trasformato nell’era delle spedizioni commerciali. 

Quelle che dagli anni Novanta hanno aperto l’universo riservato ed esclusivo degli ottomila addirittura a gente che fino a pochi giorni prima al massimo aveva passeggiato in collina. “Ben venga anche quello, in modo particolare per l’economia di un Paese poverissimo come il Nepal. La montagna è libertà. Semplicemente sono per l’esplorazione pura e leggera, per le spedizioni di pochi alpinisti in sintonia fra loro. Senza trasportatori e bombole d’ossigeno”.

Fatti, non parole, per chi ama affrontare gli ottomila in inverno e senza l’ausilio dell’ossigeno.

Per Simone Moro l’alpinismo non è ricerca del limite fine a se stessa, ossessione per il raggiungimento della vetta: “L’alpinismo insegna il fallimento, riconoscere l’impossibilità di arrivare in cima in quel giorno, imparando quanto necessario per riuscire il mese o l’anno dopo”. “Non dimenticate che arrivare in cima è solo il 50% del lavoro, poi bisogna scendere e di pomeriggio fa più freddo, il tempo peggiora e rischi di non riconoscere la strada”.

Un uomo come lui, che ha visto in faccia la morte travolto da un costone di ghiaccio e precipitato per 800 metri nel vuoto sopravvivendo per miracolo, non poteva che sviluppare un profondo rispetto per il concetto di limite. Il che gli ha permesso di trovare la missione della sua vita: un’insopprimibile voglia di individuare nuove strade da offrire al mondo dell’alpinismo. 

In senso letterale, raggiungendo vette – non solo degli ottomila – in modi sempre nuovi e mai tentati prima. In senso filosofico, perché talvolta non c’è nulla di più nuovo e dirompente del riscoprire antichi riti e valori di un alpinismo non ancora pronto a essere relegato ai libri di storia. 

Nella costante ricerca dei compagni di strada giusti. Di cordata nel suo caso, ma il concetto non cambia. Perché da soli possiamo fare molto ma mai tutto. “Il momento più difficile della tua vita di alpinista?” “Quando precipitai per quegli infiniti 800 metri, sentendo che la vita scivolava via. I miei due compagni erano rimasti sepolti da un inferno di ghiaccio. Non c’era più niente da fare ma voltargli le spalle per provare in qualche modo a salvarmi la pelle andando verso valle è stato l’attimo più drammatico della mia esistenza

di Fulvio Giuliani

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