Si sarebbe presentata al cancelletto di partenza solo sapendo di poter vincere. Su questo non c’erano dubbi, conoscendo Sofia Goggia. Così è stato e solo chi nulla sa di sport (e, permetteteci, di vita) potrebbe azzardare un sopracciglio alzato per quell’oro sfumato quattro minuti dopo aver toccato l’estasi.
Tre settimane fa scrivevamo di una battaglia contro la logica, sé stessa e i limiti di un’atleta, per quanto straordinaria. Oggi siamo qui a commentare una medaglia d’argento che è già parte della storia dello sport azzurro. Sofia Goggia ha fatto cose che mai nessuno era riuscito a realizzare: la prima medaglia d’oro italiana in discesa libera femminile alle Olimpiadi e le vittorie in sequenza nella prova più emozionante e ‘folle’ che ci sia.
Più di tutto, ha riportato lo sci in una dimensione popolare persa dopo l’irripetibile era di Alberto Tomba e Deborah Compagnoni. Sofia ha fatto tutto questo perché è dannatamente forte e veloce, certo, ma soprattutto perché ha un carattere fuori dal comune, ancor prima di una struttura fisica disegnata per volare in discesa. L’argento di Pechino è testa, è cuore e solo dopo gambe e ginocchia (martoriate). Lanciarsi nella libera 23 giorni dopo quella terrificante spaccata non è una questione fisica. Lo fai solo perché credi di essere la più forte di tutte. Non a parità di condizioni, perché in quel caso il discorso neppure comincia, ma anche menomata da un trauma che è solo l’ultimo di un rosario di lesioni, fratture e botte che avrebbero (hanno) spinto moltissimi atleti a mollare. La carriera, non una singola gara.
Questa è Sofia Goggia: feroce determinazione, costruita su insicurezze, paure ed esagerazioni mai nascoste. L’insegnamento della gara di ieri, impreziosita da un doppio podio italiano con Nadia Delago mai visto ai Giochi, non è l’abusato “non mollare mai”. È la storia di vita, da raccontare ai nostri ragazzi per ispirarli. Quando il talento, seppur smisurato, non basta e paradossalmente potrebbe limitarti per troppa confidenza o coraggio vicino alla temerarietà. Sofia ha dovuto imparare letteralmente sulla propria pelle tutto questo, gestire rischi ed esuberanze e quei demoni che tutti ci portiamo dentro, ma che in un campione sono il peggior avversario possibile. Farci i conti, guardarli in faccia, affidarsi senza timori o vergogna a professionisti che sappiano scandagliare il nostro intimo. Come un fisioterapista sa rimetterti in piedi – anzi sugli sci e non è proprio la stessa cosa – 23 giorni dopo una mattina in cui ti hanno portato via a braccia da una pista.
Sofia, al traguardo, era la donna più felice del mondo e lo è rimasta anche quando ha visto la Svizzera Suter sfrecciarle davanti. Perché sa cos’è lo sport, ma siamo convinti che l’istinto agonistico tornerà presto a far capolino, caricandola di quell’intensità necessaria a inseguire nuovi traguardi. Fino a dove, nessuno può dirlo ed evitiamo di cominciare a chiederle di Milano-Cortina 2026. L’Italia dello sport ha bisogno come l’aria della fuoriclasse Sofia ma soprattutto del suo esempio, della sua capacità di spingere bambine e bambini sugli sci e i ragazzi già formati a sacrificarsi sempre di più per fare come lei. Le Olimpiadi italiane dovranno esaltare un intero movimento, non possono aggrapparsi sin d’ora solo a campionesse come la Goggia o la Brignone. Davanti a un fenomeno come la campionessa bergamasca ci si alza in piedi, non si rompono le scatole.
Ci sono medaglie, anche d’oro, di cui inevitabilmente perdiamo traccia e memoria. Questo argento, la storia di Sofia, resterà con noi.
di Diego de la Vega
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