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Una vergogna con tanti padri

La sconfitta dell’Italia contro la Macedonia del Nord è sotto gli occhi di tutti, figlia della totale disorganizzazione dei vertici del nostro calcio. Il mito della maglia azzurra resta un lontano ricordo per chi dovrebbe proteggerlo e tutelarlo più di chiunque altro.
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Una vergogna con tanti padri

La sconfitta dell’Italia contro la Macedonia del Nord è sotto gli occhi di tutti, figlia della totale disorganizzazione dei vertici del nostro calcio. Il mito della maglia azzurra resta un lontano ricordo per chi dovrebbe proteggerlo e tutelarlo più di chiunque altro.
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Una vergogna con tanti padri

La sconfitta dell’Italia contro la Macedonia del Nord è sotto gli occhi di tutti, figlia della totale disorganizzazione dei vertici del nostro calcio. Il mito della maglia azzurra resta un lontano ricordo per chi dovrebbe proteggerlo e tutelarlo più di chiunque altro.
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La sconfitta dell’Italia contro la Macedonia del Nord è sotto gli occhi di tutti, figlia della totale disorganizzazione dei vertici del nostro calcio. Il mito della maglia azzurra resta un lontano ricordo per chi dovrebbe proteggerlo e tutelarlo più di chiunque altro.
Il calcio resta la cosa più seria delle cose meno serie della vita. Una premessa obbligatoria, nello scrivere del disastro azzurro di ieri sera a Palermo contro la Macedonia del Nord, in giornate in cui siamo obbligati – ci mancherebbe – a parlare e occuparci di ben altro. Eppure, non proviamo alcuna vergogna a scrivere di calcio questa mattina, perché il nostro Paese respira pallone, il pallone ha segnato storicamente delle vere e proprie rinascite simboliche, dopo passaggi di incredibile difficoltà e dolore. Fu così nel 1982, quando l’indimenticabile Mundial segnò il confine con gli anni bui del terrorismo. Lo è stato la scorsa estate – sembra incredibile scriverlo oggi – quando vincemmo contro ogni pronostico e possibilità gli Europei e ci sembrò di emergere in qualche modo tutti insieme dalla tragedia della pandemia, tornando a festeggiare nelle piazze. Il suicidio tecnico azzurro maturato fra la tarda estate, l’autunno e questo inizio di primavera – seguito proprio al trionfo di Wembley – è sotto gli occhi di tutti, ma resta figlio legittimo della totale disorganizzazione dei vertici del nostro calcio. Un’approssimazione dilettantesca che ha cancellato il concetto stesso di vivai, costruzione di talenti, pazienza, investimento nel futuro. Il nostro pallone è economicamente impresentabile e insostenibile, tecnicamente non oltre il quarto, quinto posto in Europa. I club italiani si ritengono grandi, ma sono soltanto le parodia dei veri grandi d’Europa. Assommano debiti e pochezza qualitativa e non vincono più un tubo da una vita. Eppure, nonostante questo spettacolo indecente, la Nazionale viene percepita come un fastidio, un orpello. Salvo tirar fuori l’Azzurro nel caso si vinca e balzare agilmente sul carro del vincitore. Del resto, anche in questo il calcio è fedele specchio di un Paese in cui l’ignoranza storica è un dato di fatto. Il nostro calcio, i nostri vertici e purtroppo spesso anche i tifosi non percepiscono quasi nulla del mito della maglia azzurra, ancora molto forte in tutto il mondo. Siamo ridotti a testimoniarlo con la stessa eco dell’incredibile eliminazione di ieri. Persi fra bilanci disastrati e ricordi di grandeur, finiscono per credere che qualche super-pippa superpagata conti di più della tradizione e della storia. Questo risultato segna un’era, ben oltre l’incredibile sconfitta contro una squadra modesta e orgogliosa come la Macedonia del Nord. L’Europeo non si cancella, ma un tracollo così ha già allungato la scia delle peggiori vergogne sportive italiane, dalla Corea alla Svezia dello sventurato Ventura. Otto anni (che diventano minimo dodici) senza Mondiale non sono solo la condanna per colpe che conosciamo molto bene, ma la perfetta istantanea di un calcio piccolo e presuntuoso. di Fulvio Giuliani 

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