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eternità

Eternità, sogno o incubo

Molte aziende offrono la digital resurrection ben sapendo che la venderanno soprattutto per il desiderio di eternità
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Eternità, sogno o incubo

Molte aziende offrono la digital resurrection ben sapendo che la venderanno soprattutto per il desiderio di eternità
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Eternità, sogno o incubo

Molte aziende offrono la digital resurrection ben sapendo che la venderanno soprattutto per il desiderio di eternità
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Molte aziende offrono la digital resurrection ben sapendo che la venderanno soprattutto per il desiderio di eternità

“Come mi dovete ricordare”. Nel film “The Final Cut” (2004, protagonista Robin Williams) le registrazioni video della scatola nera digitale impiantata fin dalla nascita – estratte post mortempotevano essere rimontate in ritratti dell’estinto d’ogni tipo, dal cinico-spietato al romantico-era-il-migliore.

“Come possiamo ricordarti”. Se del parente tanto amato non ci bastano le foto delle occasioni grandi e minute né gli aneddoti raccontati con tristezza o in allegria né sfogliare i suoi post nei social, i messaggi in WhatApp e le sue clip esilaranti in TikTok, allora siamo i clienti ideali delle aziende tecnologiche che ci offrono il caro estinto risorto in digitale. Siamo cioè pronti ad accogliere la sua , la tanto agognata immortalità – almeno nella sua versione post mortem su cui molte aziende (all’avanguardia in realtà virtuale, ologrammi, intelligenza artificiale, neurobiologia, supercalcolo e informatica quantistica) sono impegnate nei cinque continenti. La offrono come sublime processo di elaborazione del lutto, ben sapendo che la venderanno soprattutto per l’inalienabile desiderio di vita eterna dei vivi (digital immortality).

Da decenni sistemi complessi con centinaia di addetti – in set attrezzati per la cattura dei movimenti di una persona (motion capture) con marker, sensori e attuatori disseminati su un corpo – creano, dai modelli in carne e ossa, degli avatar digitali pronti a essere immessi in un videogioco, in un film o in una nuova vita che perpetui quella degli umani defunti, interagendo in realtà virtuale con i loro cari in lutto, parlandoci, toccandoli, abbracciandoli (vedi il noto episodio di una riunione in lacrime tra una madre e l’avatar della figlia defunta di 7 anni).

Oggi possiamo farci raddoppiare anche con un ologramma, in uno dei primi “studi televisivi volumetrici” dell’Europa continentale (il Volucap), di pochi metri quadrati, con 32 normali telecamere. È lì per esempio che Eva Umlauf, sopravvissuta al campo di sterminio nazista di Auschwitz, si duplica – per ora è un esperimento – affinché le sue testimonianze «siano interattive per le future generazioni», come raccomanda lei stessa. Il medesimo sistema consentirà alle bisnonne defunte di poter conversare, comodamente sedute in salotto o passeggiando al parco, coi pronipoti neppure visti nascere e forniti di semplici occhialini di realtà aumentata.

Potremmo perciò scegliere fra varie opzioni del cosiddetto “transumanesimo”: (1) diventare ologrammi che potranno girare per casa, fare colazione in famiglia, condividere un film in tv; (2) duplicarci come avatar digitali per una nostra seconda vita terrena ma eterna, magari goduta in più metaversi; (3) sdoppiarci, non proprio domani, in un robot gemello (vedi “Be Right Back” della serie tv “Black Mirror”); (4) duplicare il nostro cervello con la scansione dei suoi cento miliardi di neuroni e settecento trilioni di sinapsi per farlo vivere per sempre («La coscienza è lì» osano alcuni), come vuol fare Elon Musk e come rappresentato nella serie tv “Upload”. Ben il 37% dei giapponesi e degli statunitensi acconsentirebbero a un utilizzo dei propri dati, all’indomani della loro dipartita, per una eventuale risurrezione digitale.

Dunque ci faremo scansionare in tre dimensioni, scegliendo l’età che preferiremo avere nella nostra digital resurrection. Saremo fatti di exabyte (1018) di memoria, con in più 100mila libri letti con l’intelligenza artificiale, per fare bella figura nella pratica più ambita ante mortem: le conversazioni. Magari finalmente un po’ più sensate.

di Edoardo Fleischner 

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