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Google, il futuro dell’umanità in un chip

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Un altro pezzo di futuro firmato Google. Tutto in un chip grande come un quadretto di cioccolata: è stato ribattezzato “Willow” e secondo la comunità scientifica rivoluzionerà l’ambizioso settore dei computer quantistici

Google, il futuro dell’umanità in un chip

Un altro pezzo di futuro firmato Google. Tutto in un chip grande come un quadretto di cioccolata: è stato ribattezzato “Willow” e secondo la comunità scientifica rivoluzionerà l’ambizioso settore dei computer quantistici

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Google, il futuro dell’umanità in un chip

Un altro pezzo di futuro firmato Google. Tutto in un chip grande come un quadretto di cioccolata: è stato ribattezzato “Willow” e secondo la comunità scientifica rivoluzionerà l’ambizioso settore dei computer quantistici

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Un altro pezzo di futuro firmato Google. Tutto in un chip grande come un quadretto di cioccolata: è stato ribattezzato “Willow” e secondo la comunità scientifica rivoluzionerà l’ambizioso settore dei computer quantistici. Riguardo alle conseguenze dell’innovazione, in settimana è stato pubblicato un dettagliato articolo di ricerca su “Nature”. Ma il termine di paragone, in soldoni, è già di per sé sbalorditivo: un dispositivo alimentato con “Willow” sarà in grado di risolvere in cinque minuti lo stesso problema informatico che a un pc ordinario richiederebbe un tempo superiore all’intera storia dell’universo. Non ci accorgeremo dei risultati di questo traguardo prima di un decennio, è l’opinione condivisa fra gli addetti ai lavori. Ma come tante altre volte nella storia dell’umanità, il detonatore del progresso resta a lungo in silenzio.

Fatte le premesse, va spiegata la dinamica del grande passo. La formidabile potenza dei computer quantistici è nella loro unità di informazione: non il bit tradizionale (una cifra binaria, di solito 0 o 1, che per definizione possiede un solo valore alla volta), ma il qubit, cioè la sua versione quantica capace di esistere in molteplici stati simultaneamente. Tradotto, il meccanismo binario costringe l’attività di un qualsiasi laptop a importanti vincoli di tempo. Grazie ai qubit si può invece processare un’enorme mole di informazioni in più a velocità altrettanto superiore. Facile intravederne i vantaggi. Il dilemma è che i pc quantistici sono sensibili alle particelle subatomiche: più aumentano di giri e più sono soggetti a errori, al punto da mandare in tilt il loro sistema di elaborazione (anche per questo finora hanno avuto diffusione limitata). La novità introdotta da Google è che il chip “Willow” possiede 105 qubit: per i canoni della Silicon Valley si tratta di un numero mai visto prima, su cui si lavorava da trent’anni. Dietro le complessità fisiche e ingegneristiche, l’intuizione di fondo tutto sommato è semplice: più qubit a disposizione, più ‘motori’ in grado di occuparsi del problema e di ridurre i margini di errore, stavolta significativamente. Anche perché (altro elemento cruciale), a differenza dei precedenti, questo processore elaborato in California è in grado di correggere gli errori in tempo reale.

«Abbiamo sfondato il muro» esulta il team di Google. I motivi sono tutti nei potenziali campi di utilizzo dello strumento. Finora i computer quantistici hanno rappresentato un comparto di nicchia, elitario, confinato ai laboratori. Anche per gli ingenti requisiti di costo. Le migliorie apportate dal chip non consentono ancora di passare all’applicazione commerciale. Ma da oggi è possibile intravederla: medicina, chimica, intelligenza artificiale, tecnologie di trasformazione. Nuovi livelli di sviluppo, nuove frontiere del sapere sbloccabili grazie al ‘salto di specie’ che sarà consentito dai discendenti di “Willow”. Viene in mente allora la futuristica ironia di “Guida galattica per autostoppisti”, il romanzo di Douglas Adams che già nel 1980 affidava a un gigantesco calcolatore «la risposta fondamentale sulla vita, l’universo e tutto quanto»: dopo sette milioni e mezzo di anni, il supercomputer disse soltanto «42». Anche nel caso della computazione quantistica, l’importante è non sbagliare la domanda.

di Francesco Gottardi

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