Videogame della discordia
I videogame fanno bene o fanno male? Di sicuro occupano il tempo e fanno parlare
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Tra i banchi delle facoltà di Psicologia si discute da tempo circa il ruolo del videogame nella società: fa bene ai ragazzi oppure no? Buon senso a parte, il dibattito si inserisce in una cornice sociale ben più ampia. Le cose si sono messe male per i giocatori dopo che nel 2018 l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) ha etichettato il gioco come potenziale fattore di malattia e dipendenza nella sua Classificazione internazionale delle malattie. In quell’occasione l’Oms identificava gli adolescenti e i giovani adulti maschi come particolarmente vulnerabili, collegando il gaming a comportamenti antisociali, disagio emotivo e difficoltà scolastiche.
Due anni dopo la stessa organizzazione ha promosso il gioco come attività positiva durante la pandemia attraverso l’iniziativa “Play Apart Together”. Si mirava chiaramente a sensibilizzare i giovani circa la necessità di rimanere a casa, sfruttando nello stesso tempo le possibilità di interazione online. Come si può immaginare, per qualcuno fu la salvezza, per altri il colpo di grazia. Quindi? Un recente studio pubblicato sulla rivista “Healthcare” da ricercatori coreani indica che sessioni di gioco più lunghe sono associate a un miglioramento delle funzioni cognitive e delle capacità di controllo motorio negli adolescenti. L’obiettivo era quello di fornire dati empirici per chiarire se il gioco potesse avere un impatto positivo sullo sviluppo piuttosto che solo potenziali rischi.
Il lavoro ha coinvolto 130 partecipanti divisi tra studenti delle scuole medie (64) e delle superiori (66). I criteri di inclusione erano specifici: i partecipanti dovevano essere giocatori abituali che durante il gioco usavano il mouse con la mano destra, garantendo la coerenza delle abilità motorie valutate. Sono stati esclusi i soggetti con disturbi visivi o malattie che influiscono sul movimento degli occhi o sulla messa a fuoco. Al gruppo è stato inizialmente chiesto di compilare un questionario sulle abitudini personali di gioco, tra cui la frequenza e la durata delle sessioni.
La fase sperimentale è stata condotta nell’arco di cinque mesi e, oltre alle sessioni di gioco, ha visto i soggetti impegnati parallelamente nella compilazione di alcuni classici test neuropsicologici per valutare le abilità di ragionamento, di pianificazione e di controllo motorio. I risultati hanno mostrato che la frequenza settimanale delle sessioni – da 1 a 6 giorni – non è correlata a cambiamenti nelle funzioni cognitive e nelle abilità motorie. La pratica e l’esposizione ripetuta non comportano (inaspettatamente) miglioramenti funzionali. Tuttavia, esaminando la durata delle singole sessioni, è emerso un quadro diverso: i dati indicano infatti che periodi più lunghi di gioco hanno un impatto positivo sulle funzioni cognitive e sulle abilità di controllo motorio. I partecipanti che si sono impegnati in sessioni più lunghe hanno dimostrato per esempio prestazioni migliori in compiti che richiedono riflessi rapidi e pianificazione strategica, abilità spesso esercitate nei videogame complessi che si associano a sessioni più lunghe.
A questo punto la domanda sorge spontanea: gli individui che naturalmente possiedono queste capacità a livelli elevati non potrebbero essere più inclini a dedicarsi al gioco per periodi più lunghi (al contrario di quelli che, non avendole, dopo un po’ sperimentano più frustrazione che gratificazione)? Il dibattito evidentemente continuerà.
di Daniel Bulla
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Tag: Videogame, videogiochi
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