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L’abisso

Una carica di violenza nella pizzeria di Casavatore, in provincia di Napoli. Quel fucile puntato alla testa di un bambino è come se fosse puntato al cuore e al cervello di tutti noi.
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L’abisso

Una carica di violenza nella pizzeria di Casavatore, in provincia di Napoli. Quel fucile puntato alla testa di un bambino è come se fosse puntato al cuore e al cervello di tutti noi.
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L’abisso

Una carica di violenza nella pizzeria di Casavatore, in provincia di Napoli. Quel fucile puntato alla testa di un bambino è come se fosse puntato al cuore e al cervello di tutti noi.
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Una carica di violenza nella pizzeria di Casavatore, in provincia di Napoli. Quel fucile puntato alla testa di un bambino è come se fosse puntato al cuore e al cervello di tutti noi.
Una scena orribile, che anche uno sceneggiatore di Hollywood faticherebbe ad accettare per la sua mostruosa carica di violenza intrinseca. Quel fucile puntato alla testa di un bambino, in una pizzeria di Casavatore, alle porte di Napoli, è un fucile puntato al cuore e al cervello di tutti noi. Almeno, dovremmo viverlo in questo modo, per comprenderne fino in fondo la portata. Quale abisso sociale può generare un atto così sproporzionato e folle? Puntare un’arma alla testa di una ‘creatura’, come dalla notte di tempi più civili vengono teneramente chiamati i bambini a Napoli, per un ‘colpo’ da poche decine di euro fa balenare sensazioni apocalittiche. Più di un mondo alla rovescia, è una realtà in cui persino i criminali non hanno più codici, riferimenti e regole. Non agiscono per massimizzare un profitto, ma per una raggelante volontà di potenza fine a sé stessa. I napoletani cresciuti nei quartieri ‘bene’ della città, come chi scrive, ricordano perfettamente come ci si difendesse per istinto dagli orrori delle guerre di camorra degli anni Ottanta facendo finta che quella realtà non li riguardasse. Era un’altra città, antropologicamente diversa, la città che sparava e ammazzava. Una finzione, appunto, necessaria a sopravvivere, voltando la faccia dall’altra parte. Oggi siamo oltre le guerre di camorra, siamo alla violenza per la violenza, in una deregulation del potere criminale che ha moltiplicato all’infinito i mostri di una determinata società. Perché bisogna dirlo con franchezza: quel mondo esiste ed è intorno a noi, occupa intere aree di una città che ha saputo riconquistare un nome e un volto internazionale grazie al turismo, ma in cui non si è fatto nulla per quartieri abbandonati al loro destino. Un pessimo destino. Ancora peggio, c’è la concreta possibilità che a intervenire e ‘punire’ il balordo con il fucile sia il boss locale o l’aspirante tale, per dimostrare chi comandi per davvero. Certo non lo Stato. Così come non possiamo far finta, perché il tema è scivoloso, che non esista un problema legato alla ‘gomorreide’: l’esaltazione di linguaggi, look, musiche di esplicito riferimento criminale, che l’arcinota serie televisiva ha fatto assurgere a fenomeno di successo mediatico globale. “Gomorra” non ha generato la follia di Casavatore, questo potrebbe sostenerlo solo un osservatore superficiale, ma ha fotografato con grande efficacia quella realtà, alimentandone un allucinato mito. Anche negare le conseguenze di questo effetto è superficiale e pericoloso. È come camminare per le strade di Napoli (non solo dell’hinterland) e rifiutarsi di notare certi cloni della peggiore “Gomorra”. Un modello perverso e vincente, purtroppo. Da scardinare imponendone uno diverso, fatto di ordine, rispetto del diritto, modelli culturali, tanta scuola e sport.   di Fulvio Giuliani

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