L’hanno fatto nero
| Cronaca
Bisogna riflettere non solo sull’ingiustizia ma anche su come poi si sia potuta fare giustizia. Il caso di Anthony Broadwater, afroamericano dichiarato innocente dopo 16 anni di carcere grazie al lavoro di due avvocati.

L’hanno fatto nero
Bisogna riflettere non solo sull’ingiustizia ma anche su come poi si sia potuta fare giustizia. Il caso di Anthony Broadwater, afroamericano dichiarato innocente dopo 16 anni di carcere grazie al lavoro di due avvocati.
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L’hanno fatto nero
Bisogna riflettere non solo sull’ingiustizia ma anche su come poi si sia potuta fare giustizia. Il caso di Anthony Broadwater, afroamericano dichiarato innocente dopo 16 anni di carcere grazie al lavoro di due avvocati.
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C’è di che riflettere, non solo sull’ingiustizia, ma su come poi – tardi e male – si sia potuta fare giustizia. Alice Sebold era allora una giovane studentessa, sarebbe poi divenuta una scrittrice. Nel maggio del 1981 subì e denunciò una violenza carnale, nello Stato di New York. Ad aggredirla e stuprarla fu, lei lo disse subito, un afroamericano. Anthony Broadwater fu subito fra i sospettati e fu mostrato, nel corso delle indagini, alla vittima assieme ad altri quattro neri. Lei indicò un altro. Ma gli indizi raccolti facevano di lui il colpevole perfetto. Fu processato e, all’ultima udienza, il giudice chiese a Sebold se riconosceva, in aula, il suo stupratore. E lei lo indicò. C’è un particolare: in quell’aula era l’unico nero.
Ha passato 16 anni in carcere. 16 anni a dirsi innocente. Una vita distrutta e, come è facile immaginare, una condizione economica, una volta uscito, miserevole. Pur in queste condizioni ha trovato due avvocati – David Hammond e Melissa Swartz – disposti a studiare il caso, capaci di accorgersi della condanna ingiusta, tenaci al punto da convincere il procuratore a riaprire il caso e, infine, preparati e determinati al punto da ottenere la revoca della condanna.
Naturalmente nessuno potrà restituire a Broadwater gli anni di vita che gli sono stati tolti né risarcire quelli, lunghissimi, che ha passato in carcere, ma, seppure con questa tara, giustizia è stata fatta. Non dovrà più reclamare la propria innocenza, ora è innocente. La vittima di allora, oggi affermata scrittrice, se ne dice dispiaciuta. Al di là del caso specifico e della difficoltà nell’istruire processi in cui l’accusa è sostenuta dalla vittima – mentre gli altri riscontri, come si è poi visto, sono inesistenti o fraintesi – questa faccenda conduce a un’altra riflessione: come ha potuto un ex galeotto, senza dollari da spendere, trovare due bravi avvocati disposti a spendere il loro tempo e la loro professionalità sapendo che il cliente non li avrebbe mai potuti ripagare? Per giunta in una giustizia, quella statunitense, decisamente costosa.
C’è riuscito per la stessa ragione per cui noi ne parliamo, visto che possiamo parlarne perché la notorietà del caso è riuscita ad attraversare l’Atlantico: quei due avvocati hanno fatto un investimento, rivelatosi assai produttivo. Non hanno lavorato per soldi, ma per il senso di giustizia; al tempo stesso, però, sapevano che una vittoria li avrebbe messi in evidenza e che si sarebbe saputo in giro che quei due sono proprio in gamba e non mollano il loro assistito, si battono fino in fondo. Anche se i soldi li vedranno solo in caso di vittoria e risarcimento. Ed è questo che restituisce fascino alla nobile professione dell’avvocato: il tuo successo è quello dell’assistito.
di Gaia Cenol
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Tag: giustizia
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