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L’omicidio di Francesco Pio e la scelta di una vita criminale

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Chi subirà una condanna non meritata non sarò l’assassino di Francesco Pio, ma la gente per bene dei soliti quartieri di Napoli

L’omicidio di Francesco Pio e la scelta di una vita criminale

Chi subirà una condanna non meritata non sarò l’assassino di Francesco Pio, ma la gente per bene dei soliti quartieri di Napoli

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L’omicidio di Francesco Pio e la scelta di una vita criminale

Chi subirà una condanna non meritata non sarò l’assassino di Francesco Pio, ma la gente per bene dei soliti quartieri di Napoli

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Il presunto assassino di Francesco Pio è stato individuato in una manciata di ore, grazie alle telecamere di sorveglianza puntate su quel tratto di lungomare a Mergellina. Il luogo in cui, nella notte fra domenica e lunedì, si è consumata una morte vacua, così assurda da cancellare anche la possibilità stessa di cercare un perché. Non c’è, non può esserci. Lunica certezza è lo straniante senso di déjà vu: vi abbiamo già assistito un numero insopportabilmente alto di volte. Lo sanno tutti, ma nel caso di un napoletano – come chi scrive – la scena da Far West belluino fra gli chalet di Mergellina è storia vecchia. Conosciuta sino ai dettagli nelle meccaniche, nel retroterra, nella subcultura che lha determinata.

Il diciottenne ucciso da tre colpi di pistola al petto portava lo stesso nome di battesimo di colui che avrebbe fatto fuoco, Francesco Pio. Incredibile coincidenza, ma è nel cognome di chi potrebbe essere riconosciuto come il killer che ritroviamo la sua storia e la sua scelta. Si chiama Valde, il padre fu ammazzato in un regolamento di conti della camorra nel 2013. Sulla nonna pende una condanna in primo grado a otto anni per associazione camorristica, il fratello ha cercato di ammazzare un sedicenne. Lo stesso Francesco Pio, oggi ventenne, ha già conosciuto la giustizia, in un percorso di reinserimento (fallito?) in società dopo una brutta faccenda di spaccio di droga.

Eppure, tutto ciò non costituisce di per sé una condanna inappellabile a vivere da aspirante camorrista, da delinquente. Perché chi se ne va in giro con una pistola ed è pronto a usarla in mezzo alla folla è innanzitutto un delinquente. Poi un folle ed eventualmente un assassino. Se i sospetti verranno confermati dalle indagini e dal processo (anche se le prime ammissioni volontarie sarebbero già arrivate) c’è una scelta, una precisa volontà di seguire le orme familiari. C’è lucidità, non unentità superiore che ti costringe a diventare come altri prima di te. Quegli altri li imiti, li scimmiotti tragicamente perché compi una scelta precisa di rifiuto della convivenza civile – per non parlare della legge e dello Stato – cercando la tua realizzazione di uomo che conta, che incute timore e rispetto”. Anche se, in fin dei conti, sei solo un rifiuto.

Sono altri a subire condanne che non meritano, non chi se ne va in giro armato e pronto a far fuoco per uno sgarro“ ridicolo o per regolare antichi conti fra fazioni che tramandano di generazione in generazione lodio reciproco. A essere condannati sono gli abitanti dei quartieri dei protagonisti di questa tragedia (vittima, killer e altri coinvolti nella rissa): Pianura, Rione Traiano e Barra.

Per chiunque sia di Napoli, bastano i nomi a evocare il senso di impotenza, di disperazione. È il dantesco «Lasciate ogne speranzavoi ch’intrate»,luoghi dove diritti e possibilità sono marginalizzati al di là della buona volontà delle persone. Era esattamente così negli anni Ottanta, nei ricordi del sottoscritto che ebbe lopportunità (la buona sorte) di crescere vomerese. Come non provare, oggi come allora, il senso di superiorità, di privilegio che animava tanti nostri coetanei nel momento in cui si entrava in contatto con gli altri”: gli sfigati, i condannati al sempre uguale.

Che quarant’anni dopo si sia ancora esattamente lì provoca pura angoscia.

Di Fulvio Giuliani

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