Il nostro codice penale stabilisce che la legge non ammette ignoranza, nemmeno quella di tutti quei giornalisti che – senza conoscere gli atti – hanno titolato ieri che un pubblico ministero donna della Procura di Benevento avrebbe addirittura giustificato uno stupro (il che sarebbe stato un reato), motivando la richiesta di archiviazione della denuncia di una signora.
È vero, questo pm ha sostenuto che a volte l’uomo deve «vincere quel minimo di resistenza che ogni donna, nel corso di una relazione stabile e duratura, nella stanchezza delle incombenze quotidiane, tende a esercitare quando un marito tenta un approccio sessuale».
Ma il punto è proprio questo: le sue parole, a dir poco improprie, vanno inquadrate nel gioco delle parti e non costituiscono un verdetto di assoluzione. La canea mediatica che ne è seguita – espressione di un conformismo giustizialista a cavallo tra la Santa Inquisizione e la totale ignoranza dei meccanismi processuali – attenta allo Stato di diritto perché serve soltanto a intimidire il giudice, l’unico soggetto titolato a emettere la sentenza (comunque appellabile) e a motivarla.
di Vittorio Pezzuto
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