Letizia Battaglia, la fotoreporter della mafia e dell’umanità siciliana, si è spenta nella notte del 13 aprile a 87 anni portandosi con sé un archivio di fotografie e di aneddoti che sono la nostra storia.
Chissà quante volte si sarà chiesta se quel cognome, Battaglia, non fosse anche un marchio del destino. Sembrava davvero cucito su misura per lei. Palermo era Letizia Battaglia e viceversa, entrambe permeate dalla paura e, al contempo, smaniose di liberarsene. Lei, prima donna a entrare in una redazione giornalistica in Italia come fotoreporter per “L’Ora” e a ottenere nel 1985 – prima donna europea – il prestigioso “The W. Eugene Smith Award” a New York. «Un premio importante ma oggetto terribile, come tutti i trofei» commentò.
Più che viaggiare fotografando, a Letizia interessava ritornare nella sua Palermo, soprattutto dopo l’apertura nel 2017, fra non poche difficoltà, del Centro Internazionale di Fotografia, poi abbandonato nel 2020 a seguito di polemiche e accuse per una campagna pubblicitaria commissionata dalla Lamborghini. In quell’occasione, la sua idea di una “Palermo bambina” in cui le storiche auto facevano da sfondo, un po’ in disparte, a volti di giovani ragazzine dai capelli rosso Tiziano non piacque al mondo social. Diversi colleghi si schierarono dalla sua parte, altri tacciarono quel progetto di un’eccessiva forzatura. Anche Battaglia finì insomma nel calderone moderno del politically correct. Da lì l’abbandono della sua creatura, il polo fotografico più importante del Sud: «Non vale la pena fare tutti questi sacrifici dopo essere stata massacrata. Anche i colleghi fotografi che ho sempre rispettato, le donne, le femministe… È stata una cosa molto cattiva e crudele». Quasi nessuno ha ricordato questi spiacevolissimi giudizi, nelle ore dell’ultimo saluto. Ennesimo inchino all’ipocritamente corretto.
Nel 1980 documentò Piersanti Mattarella appena ucciso, tra le braccia del fratello Sergio. Suoi anche gli scatti di Andreotti con personaggi ambigui all’Hotel Zagarella, l’assassinio del giudice Terranova, i funerali del generale Dalla Chiesa. Non immortalò la morte dei migliori combattenti della sua stessa battaglia – Falcone e Borsellino – ma quell’evento le spaccherà il cuore e nel 1992 si allontanerà dal fotogiornalismo, preferendo dedicarsi a una fotografia meno ‘impegnata’ e dolorosa.
Non era la mafia però l’ossessione di Letizia Battaglia, ma l’umanità che la subiva. Persone, bambini, la stessa città piegata dalla malignità di Cosa Nostra: sempre in bianco e nero («È più rispettoso, più severo»), con gli occhi della gente dritti nell’obiettivo, attratta dai più poveri e reietti e, forse per questo, più umani. Con eleganza, senza intimorire. Astutamente consapevole che quella sua adorata Pentax k1000 era anch’essa una piccola arma silenziosa in un mondo di arsenali mafiosi.
In una delle sue ultime interviste, nel 2016 dichiarò: «Io abito dove ci sono le mie fotografie. La mia casa è invasa di negativi e stampe. Che ne farò? Ben che vada, quando un fotografo muore gli si fa un libro». Pensiamo che sia troppo poco, un libro per salutare Letizia Battaglia. Ci vediamo a Palermo.
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Tag: fotografia, giornalista
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