Cos’è la flat tax e perché in Italia non funzionerebbe
È in cima alla lista delle promesse elettorali: si chiama flat tax, ha origini americane, e pochi sanno davvero cosa sia e perché ha poche speranze di funzionare nel nostro Paese.
| Economia
Cos’è la flat tax e perché in Italia non funzionerebbe
È in cima alla lista delle promesse elettorali: si chiama flat tax, ha origini americane, e pochi sanno davvero cosa sia e perché ha poche speranze di funzionare nel nostro Paese.
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Cos’è la flat tax e perché in Italia non funzionerebbe
È in cima alla lista delle promesse elettorali: si chiama flat tax, ha origini americane, e pochi sanno davvero cosa sia e perché ha poche speranze di funzionare nel nostro Paese.
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È in cima alla lista delle promesse elettorali: si chiama flat tax, ha origini americane, e pochi sanno davvero cosa sia e perché ha poche speranze di funzionare nel nostro Paese.
La flat tax è tornata sulla lista delle promesse elettorali (facili da farsi e difficili da mantenere) ma non molti hanno capito bene in realtà di che si tratti.
È una proposta, di origine americana, di radicale semplificazione del sistema fiscale, accompagnata da una riduzione delle tasse sui redditi più elevati. Sostituisce le diverse e progressive aliquote d’imposizione che gravano su vari tipi di reddito personale con un’aliquota unica, eliminando allo stesso tempo la quasi totalità delle esenzioni e deduzioni possibili, fatta salva una quota minima di reddito non imponibile.
È un concetto particolarmente attraente nel contesto fiscale americano (ove i contribuenti hanno infinite possibilità di dedurre spese dal reddito imponibile) e meno efficace nel contesto italiano, dove le deduzioni disponibili sono molto minori.
In Italia, al netto del bonus, il 13% dei contribuenti (con redditi da 35mila euro in su) versa circa il 59% di tutta l’Irpef riscossa e sarebbero costoro i beneficiari diretti di una flat tax al 23%. A parità di redditi dichiarati, la misura comporterebbe una perdita di gettito di circa 50 miliardi, pari a circa il 5% del bilancio pubblico annuale. Andrebbe dunque compensata con un’analoga, significativa riduzione della spesa o con importanti entrate addizionali. Riducendo l’aliquota della flat tax al 15%, la platea dei beneficiati ovviamente crescerebbe ulteriormente e la perdita di gettito sarebbe così rilevante da richiedere tagli radicali di spesa senza precedenti.
Da un punto di vista liberale, dunque, la flat tax sembra un’idea eccellente: favorisce chi lavora e intraprende con successo, riducendo la spesa pubblica. Ma ricade sui proponenti l’onere di indicare come e dove ridurre quest’ultima, cominciando col chiarire se si vogliono tagliare i benefici diretti o piuttosto ridurre drasticamente la pubblica amministrazione e i servizi pubblici. La difficoltà di fornire tale risposta spiega facilmente perché in Italia l’idea della flat tax è stata già più volte accarezzata in passato ma mai seguita da azioni concrete. Ricorda le promesse sindacali degli anni Settanta, che dichiarando gli aumenti salariali “variabile indipendente” dell’economia producevano essenzialmente… inflazione. Parimenti, senza tagli di spesa la flat tax produrrebbe soprattutto deficit.
La realtà italiana è che la classe media è fiscalmente tartassata perché le aliquote diventano elevate a partire da redditi modesti, che le imprese sono ancor più tartassate della classe media, che il sistema pensionistico è ancora troppo generoso, che la burocrazia è bizantina, antiquata e deresponsabilizzata e infine che la scuola pubblica costa molto e produce futuri disoccupati. C’è dunque bisogno di uno Stato capace di riformarsi e governarsi, non di promettere sapendo di non poter mantenere. E questo richiede forze politiche e dirigenti capaci e responsabili.
di Ottavio Lavaggi
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