La formula dei dazi magicamente sbagliata
Un giornale finanziario in lingua francese ha ricostruito nei dettagli che la ‘magica formula’ (peraltro sbagliata) dei dazi di Trump è stata suggerita da un giovane economista operante nei fondi di investimento Usa

La formula dei dazi magicamente sbagliata
Un giornale finanziario in lingua francese ha ricostruito nei dettagli che la ‘magica formula’ (peraltro sbagliata) dei dazi di Trump è stata suggerita da un giovane economista operante nei fondi di investimento Usa
La formula dei dazi magicamente sbagliata
Un giornale finanziario in lingua francese ha ricostruito nei dettagli che la ‘magica formula’ (peraltro sbagliata) dei dazi di Trump è stata suggerita da un giovane economista operante nei fondi di investimento Usa
Esterno giorno, inizio primavera. Temperatura ancora un po’ freschetta: è il 2 aprile 2025. Siamo nel Giardino delle rose della Casa Bianca, a Washington. Ma a concionare, più che un presidente Usa, sembra ci sia un imbonitore di snake oil, l’elisir di serpente spacciato nel Far West come buono per tutti i mali. Con tanto di mefistofelico e taroccato tabellone a colori (e, scritta in piccolo, la clausola “Included trade barriers and currency manipulation”, quasi come una truffaldina polizza assicurativa) con dati e cifre: serve a dare una patina di scientificità ai numeri e farli sembrare figli di un asettico algoritmo, invece che di una strampalata metrica per giustificare l’imposizione di bizzarri dazi.
Ma ci sono sempre degli autori dietro gli show dei potenti e le sceneggiate dei frontmen, anche se si chiamano Trump. E così un giornale finanziario in lingua francese ha ricostruito nei dettagli che la ‘magica formula’ (peraltro sbagliata) è stata suggerita da un giovane economista operante nei fondi di investimento Usa, di origini parigine, con tutte le ‘patenti’ accademiche statunitensi (Harvard compresa).
Il nuovo guru Stephen Miran, entrato quasi per caso nelle simpatie di Trump appunto per le sue teorie eterodosse, è stato anche il profeta della folle strategia geopolitica del presidente sui dazi. Secondo altre fonti, come il “The Washington Post”, la formula incriminata sarebbe poi stata calcolata addirittura dall’apposito ufficio commerciale della Casa Bianca (e non, come di competenza, dal Department of Commerce Usa).
Al di là dei dettagli tecnici, l’ispiratore del tutto è stato individuato da tempo, anche se pochi ne hanno parlato. Del resto oggi nel mare magnum degli stupefatti, stupefacente dovrebbe essere lo stupore. The Donald aveva promesso i dazi in campagna elettorale. E quindi i Paesi colpiti hanno avuto almeno un anno per prepararsi. E che dire dei mercati finanziari che, al contrario dei giornalisti e dei sondaggi, avevano anticipato con entusiasmo la vittoria di Trump?
Il presidente Usa è abbastanza prevedibile. Quindi il tema potrebbe essere proprio questo: un politico che, in controtendenza (specie rispetto a quello che succede in Italia), tende a mantenere le promesse della campagna elettorale. O, almeno, ci prova. Che poi riesca a raggiungere i suoi obiettivi è tutta un’altra cosa.
In ogni caso Stephen Miran non si scompone. Nemmeno di fronte ai titoloni di giornale e al cosiddetto “rischio di recessione”. Sconosciuto ai più, questo economista di 41 anni è l’architetto della politica economica di Trump, essendo anche da pochi giorni alla testa dei consiglieri economici della Casa Bianca (il Council of Economic Advisers, l’agenzia e la cabina di regìa che prepara ogni anno il “Rapporto economico del presidente”). È infatti stato proprio Miran a teorizzare prima – e a sponsorizzare poi con determinazione – la guerra commerciale che Trump si è giocato a modo suo, da bullo.
Lo jeune loup (nel senso di ambizioso) ha lavorato anche presso il Manhattan Institute, un think tank conservatore di New York. Da sempre sostenitore di Trump, ha messo a punto in maniera peculiare quella che potremmo definire la “dottrina Miran” nel tentativo di risolvere il paradosso strutturale dell’economia americana e del suo twin deficit.
In sintesi: gli Stati Uniti hanno una moneta robusta e sopravvalutata perché è il punto di riferimento globale (inoltre, comprando molto di più all’estero rispetto ai prodotti che piazzano sugli altri mercati, tendono a far circolare molti greenback in giro per il mondo). Ed è proprio questo elemento, cioè la forza del dollaro, che sta danneggiando l’industria manifatturiera americana: con una valuta solida diventa infatti più difficile esportare. Non solo: la stessa forza del biglietto verde favorisce appunto le importazioni, accentuando il deficit commerciale degli Stati Uniti. Da qui la carta dei dazi, panacea di tutti i mali, manco fosse snake oil.
di Franco Vergnano
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