I risparmiatori privati non sembrano detenere troppi titoli di Stato. Le influenze che determinano questo trend sono molteplici, legati alla discesa dei tassi d‘interesse e alle nuove forme d’investimento finanziario
Da tempo è ormai noto come i cosiddetti “Bot People”, risparmiatori privati che sottoscrivono direttamente titoli di Stato, non ne detengano più così tanti. La loro percentuale si è contratta nel tempo fino a raggiungere livelli inferiori al 5%, come certificato dalle ultime relazioni annuali della Banca d’Italia (a metà degli anni Novanta erano intorno al 20%). I motivi di questo trend sono svariati, molti dei quali legati alla discesa dei tassi di interesse e al progredire di forme di investimento finanziario più complesse: il cosiddetto risparmio gestito, che ha un ruolo predominante nella sottoscrizione dei titoli di Stato. E non paiono essere più molto considerati il vantaggio fiscale di una tassazione al 12,50% e l’esenzione da tasse di successione.
Anche se i “Bot people” sottoscrivono direttamente meno titoli di Stato, è anche vero che se li ritrovano comunque nei basket proposti da banche, Sim e assicurazioni in forma di fondi, polizze e altri strumenti di raccolta di risparmio: modalità che rispecchiano le prassi di investimento più diffuse negli altri Paesi europei e negli Stati Uniti. A sua volta il Tesoro italiano, nell’intento di rendere sempre più collocabile il proprio debito, ha creato strumenti ad hoc per i risparmiatori retail, costruendo emissioni strutturate in funzione dei portafogli della famiglie (Btp Italia prima e Futura più di recente) e definendo modalità di collocamento dirette. La risposta dei risparmiatori è stata variabile: dopo i primi grandi successi dei collocamenti di questi strumenti si è assistito a un qualche ‘raffreddamento’ dell’entusiasmo.
Lo spostamento nella composizione dei sottoscrittori del debito nazionale non ha portato particolari problemi in termini di stabilità e tenuta del nostro debito, soprattutto per merito della Bce che continua da diversi anni ad acquistare titoli, a cominciare dal «Whatever it takes» e dal conseguente Quantitative easing fino ad arrivare agli attuali Pepp e Pspp, piani di acquisto definiti a seguito della pandemia. Con un debito pubblico sulle spalle di 2.730 miliardi a settembre 2021 (di cui 2.274 in titoli obbligazionari), lo Stato italiano ha trovato un valido acquirente nella Bce, che ne detiene 647 miliardi (dati Banca d’Italia). La quota maggiore – 831 miliardi, pari al 27% – è ancora in mano a investitori non residenti in Italia.
Al di la dei numeri, viene da chiedersi se le famiglie italiane siano ancora in grado di sostenere il nostro debito (ormai cresciuto anche a seguito della pandemia) o se invece nuovi strumenti finanziari, tassi di interesse ancora bassi – mentre si intravede ormai prossimo un aumento di inflazione – e nuove forme di investimento legate alle criptovalute non portino il risparmio retail ancora più lontano da Bot e Btp. La pandemia nella quale ancora ci dibattiamo al momento non sembra aver mutato di molto gli scenari e le tendenze relative all’allocazione di diverse forme di risparmio, ma forse gli effetti si vedranno più avanti. Desta attenzione la sempre maggiore diffusione di investimenti in criptovalute. Se da un lato pare irreversibile l’affermarsi di questo modo di far circolare denaro, dall’altro mancano ancora discipline standardizzate e riferimenti certi e trasparenti per garantire un’informativa costante sui valori del loro investimento.
La Ragione è anche su WhatsApp. Entra nel nostro canale per non perderti nulla!
-
Tag: economia
Leggi anche