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Lavoro, le sorprese tra le pieghe dei dati ISTAT

Scartabellando tra i dati di contabilità nazionale si trovano dati che aiutano a comprendere meglio le dinamiche del settore del lavoro.
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Lavoro, le sorprese tra le pieghe dei dati ISTAT

Scartabellando tra i dati di contabilità nazionale si trovano dati che aiutano a comprendere meglio le dinamiche del settore del lavoro.
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Lavoro, le sorprese tra le pieghe dei dati ISTAT

Scartabellando tra i dati di contabilità nazionale si trovano dati che aiutano a comprendere meglio le dinamiche del settore del lavoro.
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Scartabellando tra i dati di contabilità nazionale si trovano dati che aiutano a comprendere meglio le dinamiche del settore del lavoro.

Questo giornale è intervenuto più volte sull’occupazione. Per Eurostat in Italia lavora il 58,2% della popolazione attiva, contro una media Ue del 68,4%. Gli ultimi dati Istat dicono che l’Italia è salita al 59,9%, un effetto statistico influenzato anche dalla diminuzione della popolazione attiva. Ma scartabellando tra i dati di contabilità nazionale si trovano parecchie sorprese che permettono di comprendere meglio le dinamiche del settore.

La prima riguarda il rapporto tra le persone che lavorano (classificati dall’Istat come “occupati”) e le cosiddette Ula (Unità di lavoro annue a tempo pieno), cioè il numero medio mensile di “addetti equivalenti” che lavorano a tempo pieno durante un anno (al netto degli stagionali, della cassa integrazione e dei contratti di solidarietà). Ebbene, fino al 2005 il numero di “occupati” era inferiore alle Ula: ogni persona lavorava più di quanto previsto dal contratto principale. Dopo c’è stato il sorpasso. Cioè, ogni “occupato” ha cominciato a lavorare di meno. Adesso siamo appena al 93% circa.

Anche le ore complessivamente lavorate dagli italiani sono tendenzialmente diminuite (con un piccolo rimbalzo nel 2018), dopo un picco nel 2007 con quasi 46 miliardi. Ogni settimana si sta in fabbrica o in ufficio per 35 ore, come media ponderata di 31 ore delle femmine e di 38 dei maschi. Pesano su questa discrepanza alcuni fattori: in primo luogo le assunzioni part time. In Italia, è politicamente corretto considerare che sia prevalente il rapporto a tempo parziale cosiddetto “involontario”, ovvero imposto dai datori di lavoro ai dipendenti. Basterebbe osservare i dati del part time a livello Ue per accorgersi di un dato di fatto: il tempo parziale è molto diffuso dove i tassi di occupazione femminile sono più elevati. La percentuale media di lavoro a tempo parziale (riguardante cioè ambedue i generi) in Italia si colloca al livello che in altri Paesi riguarda il solo lavoro part time degli uomini.

Marco Biagi sosteneva che il mercato del lavoro italiano fosse uno dei peggiori. Peraltro, dopo venti anni, le cose sono ancora più deteriorate. Siamo riusciti a combinare dati estremamente contraddittori: un importante livello di disoccupazione; un numero significativo di Neet (coloro che non hanno un lavoro ed evitano di cercarlo); un record di posti vacanti (ovvero di posizioni retribuite scoperte); il grido di allarme del sistema delle imprese per le difficoltà a reperire manodopera, non solo adeguata, ma persino disponibile; la forte presenza di lavoro sommerso che spesso è un doppio lavoro.

Stiamo poi assistendo al fenomeno di dimissioni volontarie in numero maggiore dei temuti licenziamenti allo scadere del blocco. Anche in questo caso c’entrano le contraddizioni del mercato del lavoro. In un contesto in cui l’offerta di lavoro non copre la domanda è normale che un lavoratore dotato di un’adeguata professionalità vada alla ricerca di posti di lavoro migliori. E li trovi.

di Giuliano Cazzola e Franco Vergnano

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