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Le imprese e i capitali, siamo prede

La dura realtà delle imprese in Italia: siamo rimasti senza imprenditori come dimostrano la pochezza degli ultimi leader di Confindustria e come segnalato dal “Wall Street Journal”
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Le imprese e i capitali, siamo prede

La dura realtà delle imprese in Italia: siamo rimasti senza imprenditori come dimostrano la pochezza degli ultimi leader di Confindustria e come segnalato dal “Wall Street Journal”
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Le imprese e i capitali, siamo prede

La dura realtà delle imprese in Italia: siamo rimasti senza imprenditori come dimostrano la pochezza degli ultimi leader di Confindustria e come segnalato dal “Wall Street Journal”
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La dura realtà delle imprese in Italia: siamo rimasti senza imprenditori come dimostrano la pochezza degli ultimi leader di Confindustria e come segnalato dal “Wall Street Journal”
Da una parte c’è, in tutti i modi possibili e ai massimi livelli, l’auspicio che le nostre aziende crescano, si irrobustiscano, raggiungano una massa critica in grado di renderle competitive a livello internazionale. Dall’altra il confronto con la dura pratica del merger & acquisition, che vede le realtà industriali in tutti i campi – dall’automotive alla moda e all’energia – essere sempre più prede e sempre meno cacciatrici. E questo nonostante l’enorme liquidità parcheggiata nelle banche italiane. Perché la finanza ci ha insegnato che non basta crescere per linee interne, aumentando fatturato ed export. I veri salti di qualità si fanno con le acquisizioni e, ancora meglio, con le fusioni nelle quali si riesce a mantenere il controllo dell’intero business consolidato, anche con accordi di governance. Un mestiere ben diverso dal saper attrarre investimenti diretti esteri, prassi dove pure non brilliamo. Paradigmatica è stata, da sempre, la strategia seguita da Leonardo Del Vecchio con Luxottica: da piccolo produttore di montature ad Agordo, nel Bellunese, a leader mondiale degli occhiali. Purtroppo non ci sono molti altri esempi da citare. Anche nel nostro punto forte, quello della moda, i grandi stilisti autoctoni non hanno saputo fare massa critica come i francesi. Anche se, qualche volta, ci hanno pensato. Il progetto di Versace di unirsi con Gucci, allora all’avanguardia, fu bloccato dalla tragica e improvvisa morte di Gianni. Tentò poi Prada alla fine del secolo scorso – il momento che segna l’inizio dei poli (Prada, fra l’altro, comprò Fendi insieme a Lvmh) – ma probabilmente non era il momento giusto per la maison italiana. Ma non vorremmo che la verità fosse molto più prosaica. E cioè che l’Italia è purtroppo rimasta senza imprenditori, come dimostra anche la pochezza degli ultimi leader di Confindustria e come aveva segnalato lo scorso autunno l’autorevole “Wall Street Journal”. Le grandi figure del passato se ne sono andate. Ma senza una nuova generazione di imprenditori mancano le forze ‘affamate e folli’ (mutuando il suggerimento di Steve Jobs agli studenti di Stanford) per far crescere il nostro Paese. Le ultime due operazioni, fresche di annuncio, parlano da sole. Tod’s dà l’addio alla Borsa: il fondatore e Lvmh lanciano l’Opa amichevole, anche perché Della Valle era già da lustri nel board del gruppo francese. La famiglia Moratti, dopo 62 anni, cede la maggioranza della Saras agli svizzeri-olandesi di Vitol, un gruppo nato a Rotterdam solo nel 1966, per il delisting. Quindi altre due perdite pesanti per la già non ricca Piazza Affari. Le motivazioni sono abbastanza iterative. Un capoazienda ormai anziano, la volontà di ‘dare un futuro’ al business e il desiderio degli eredi di intraprendere nuove avventure. Ma il nodo resta, come ha detto l’ex governatore di Bankitalia Ignazio Visco: «In Italia non siamo riusciti a creare una classe imprenditoriale come quella che ha invece consentito il miracolo economico». di Franco Vergnano

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