Il nazionalismo economico non è la risposta alla Cina
| Economia
Al portentoso sviluppo della Cina nel settore automobilistico, c’è chi vorrebbe rispondere con il nazionalismo economico. Niente di più sbagliato

Il nazionalismo economico non è la risposta alla Cina
Al portentoso sviluppo della Cina nel settore automobilistico, c’è chi vorrebbe rispondere con il nazionalismo economico. Niente di più sbagliato
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Il nazionalismo economico non è la risposta alla Cina
Al portentoso sviluppo della Cina nel settore automobilistico, c’è chi vorrebbe rispondere con il nazionalismo economico. Niente di più sbagliato
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Disponendo di uova è facile fare una frittata, ma avendo la frittata è impossibile recuperare le uova. Dopo trent’anni di globalizzazione dell’economia, l’idea di tornare al nazionalismo economico non è forse oggettivamente impossibile come estrarre uova crude da una frittata, ma implicherebbe costi e difficoltà che i populisti di ogni colore ovviamente ignorano o nascondono.
Lo spunto per questa osservazione ci viene dalla notizia che la Cina ha raggiunto la Germania nella classifica degli esportatori di automobili e si sta trasformando, da produttore di auto di modesta qualità e basso prezzo, in esportatore di auto elettriche di qualità e valore elevato.
Difficoltà in vista per Tesla, dunque? Non necessariamente, visto che Tesla fabbrica auto… a Shanghai. E non è sola: la Bmw fabbrica le sue elettriche in Cina, la Mercedes produce le nuove Smart elettriche in associazione con i cinesi, come peraltro fa Volvo con le Polestar (il che non sorprenda, visto che Volvo è ora a controllo cinese).
In Cina i costi di produzione restano assolutamente competitivi – nonostante i salari in crescita – perché le nuove fabbriche sono altamente robotizzate, le autorizzazioni sono rapide e la burocrazia non è un ostacolo (quando le direttive del regime sono favorevoli…) e c’è un mercato domestico di oltre un miliardo di consumatori, dei quali centinaia di milioni con alto potere acquisitivo. Il comparto automobile in maggiore crescita è quello delle vetture elettriche o ibride, che sono molto più semplici da produrre, disponendo di batterie efficienti e di elettronica avanzata. Non a caso la cinese Catl è divenuta in pochi anni una delle maggiori produttrici globali di batterie.
Di fronte a questi rapidi sviluppi sorge immediata la tentazione protezionista: «Mettiamo barriere tariffarie e regolatorie per bloccare l’abusiva concorrenza delle auto cinesi e difendiamo la produzione europea di auto a benzina!». Il problema di una simile strategia, se applicata, sarebbe duplice: le nostre auto diverrebbero più care e meno moderne, mentre lasceremmo ai cinesi i mercati terzi e cioè i quattro quinti dell’umanità.
Qual è dunque il rimedio? In primo luogo restare in testa nell’innovazione e nella qualità: soprattutto nella robotica, nell’elettronica e nelle batterie. In secondo luogo abbandonare ogni velleità di soluzioni nazionali invece che europee. In terzo luogo riconoscere il fatto che, per competere con un concorrente con governo dirigista a partito unico ed economia privata dinamica, occorre produrre un’interazione più efficace tra governance democratica e regolatrice degli Stati e creatività e dinamismo dei privati.
Di per sé la Cina ha significative “gatte da pelare”: crisi demografica in arrivo, ipertrofia dell’edilizia, minore crescita, inquinamento disastroso e limitazioni delle libertà individuali. Ci sono segnali recenti di un cambiamento di rotta del regime – forse provocato dalle difficoltà menzionate, forse meramente tattico – in senso meno ostile all’Occidente. Sono segnali certamente benvenuti, perché il nazionalismo economico danneggia tutti non meno dell’escalation militare, ma il messaggio da mandare a Pechino – che in fondo privilegia sempre la politica rispetto all’economia – è che Putin va messo in un angolo, perché “facendo frittata” delle regole della convivenza internazionale s’imbocca un cammino di uova rotte e pance vuote.
Di Ottavio Lavaggi
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