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Chiasso e oblio del voto amministrativo

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Votare bisogna ed è giusto. Farsi illudere da leader semi improvvisati è altra cosa. Meglio evitare. 

Chiasso e oblio del voto amministrativo

Votare bisogna ed è giusto. Farsi illudere da leader semi improvvisati è altra cosa. Meglio evitare. 
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Chiasso e oblio del voto amministrativo

Votare bisogna ed è giusto. Farsi illudere da leader semi improvvisati è altra cosa. Meglio evitare. 
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Si vota. Per cinque referendum sulla giustizia e per eleggere i sindaci di quasi mille Comuni – quattro i capoluoghi: Genova, L’Aquila, Catanzaro e Palermo – che coinvolgono poco meno di 9 milioni di italiani. Si vota e benché sia possibile disertare (in particolare per i referendum la questione è essenziale: sono infatti validi solo se va a votare il 50% più uno degli aventi diritto), volendo usare il linguaggio politically correct, recarsi alle urne è fortemente raccomandato. In primo luogo perché l’esercizio del voto è l’elemento essenziale, anche se non l’unico, che caratterizza un regime democratico. In secondo luogo perché esprimersi su quesiti proposti da centinaia di migliaia di cittadini che li hanno avanzati oppure da Consigli regionali che li hanno sottoscritti (rispettivamente, secondo Costituzione, cinquecentomila o cinque) è importante e significativo. Cancellare leggi approvate dal Parlamento è un atto di soggettività politica cui è autolesionista rinunciare; decidere chi deve amministrarci è un passaggio fondamentale per valorizzare scelte che concernono la vita quotidiana di tutti. Semmai, in quest’ultimo caso, l’augurio che è opportuno formulare è che vinca il migliore. Sempre che gli elettori riescano a individuarlo: effettivamente non sarà semplice e dunque buona fortuna.  Questo giornale, per il modo in cui si propone, si sottrarrà al diluvio di commenti, analisi, approfondimenti che tracimeranno dai media, cartacei o meno. È possibile che non resista a una qualche riflessione a mente fredda, diciamo da martedì prossimo in poi. Una cosa però ci sentiamo di dirla subito. A dispetto proprio del diluvio di parole che accompagneranno la tornata referendario-amministrativa, è fortemente prevedibile che già a metà della settimana prossima dei risultarti ben pochi si ricorderanno, compreso in buona parte dei Comuni interessati nei quali sarà comunque indicativo misurare il livello di astensionismo.  È una vecchia malattia della politica italiana quella di considerare come un’ordalia, alla stregua di un vaticinio strutturale, ogni consultazione elettorale, anche quelle che riguardano Comuni con popolazione di poche migliaia di abitanti e dove (ma questo vale anche per quelli più grandi e le città metropolitane) interessi locali, divaricazioni personali tra candidati, sgambetti tra compagni di lista e alleanze spurie o addirittura contraddittorie rispetto al quadro nazionale sono all’ordine del giorno. Dedurre conseguenze nazionali da consultazioni locali è sempre un azzardo. Se poi, diciamo così, il collegio elettorale è forzosamente ristretto, si sfiora l’abisso “strologogico”.  I problemi italiani sono tanti e profondi: la guerra tra Russia e Ucraina con la conseguente preoccupante emergenza energetica, il riaccendersi dello spread e i focolai mai spenti del Covid sono i principali, ma tanti altri se ne possono aggiungere. Non saranno i risultati di Genova o Palermo a risolverli. Come pure non incideranno sul dibattito (se si può chiamare così) politico o sulla consistenza e amalgama delle coalizioni che si presenteranno alle politiche del prossimo anno. Anche se la Meloni dovesse superare Salvini oppure se l’intesa Pd-M5S funzionasse o naufragasse, sono altre le mosse che determineranno le scelte di Draghi o le opzioni delle singole forze politiche. Nemmeno se clamorosamente i referendum ottenessero il quorum si chiuderebbe l’eterna guerriglia delegittimatoria tra politica e giustizia.  Votare bisogna ed è giusto. Farsi illudere da leader semi improvvisati è altra cosa. Meglio evitare.  Di Carlo Fusi 

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