Più che una ricongiunzione, è stato un arroccamento. Il centrodestra, ferito e scombussolato dalla sconfitta alle amministrative, si è ritrovato sotto l’ala protettiva di Silvio Berlusconi per darsi una riassestata ai vestiti, pettinare i capelli scompigliati dalle urne e scattare l’ennesima photo opportunity, una volta ottima per la propaganda e oggi chissà.
In realtà la necessità di ritrovare un minimo di compattezza era ed è fondamentale. Ma per essere davvero efficace è necessario che lo schieramento Lega-FdI-FI (o quel che resta di quest’ultima) cambi schema di gioco, ribaltandolo. Significa avere la consapevolezza che non sarà un processo indolore, che ognuno dei contraenti dovrà pagare un prezzo, anche salato. La strada obbligata porta a una candidatura congiunta per il Quirinale. Sul fronte governativo, infatti, nessuno dei tre può cedere terreno all’altro pena ulteriori sconvolgimenti.
Invece il riallineamento è possibile sul Quirinale, terreno istituzionale che dovrebbe essere al riparo di schemi politici strumentali. Ma dire di aver ritrovato l’unità intorno alla candidatura del Signore di Arcore significa produrre un ulteriore sbandamento di credibilità. È naturale e umano che l’ex presidente del Consiglio sogni il Colle: è la sua ultima occasione. Ma la praticabilità di quel risultato è solo un vagheggiamento.
In realtà, per assumere l’iniziativa della giostra quirinalizia e scompaginare il fronte opposto la carta migliore – diciamo pure l’unica – è sostenere il trasloco di SuperMario Draghi da Palazzo Chigi alla presidenza della Repubblica. Con questa mossa non solo verrebbe proposto alla massima magistratura del Paese un personaggio che sta mietendo successi innegabili e gode di un prestigio ragguardevole.
Ma soprattutto si creerebbero difficoltà nel centrosinistra, una parte del quale difficilmente potrebbe sottrarsi. I prezzi? Due. Primo: la rinuncia alle elezioni anticipate. Secondo: spingere Berlusconi a fare una scelta da vero statista. Il quale al momento nicchia: «Draghi? Ottimo per Colle ma è più utile se resta premier». Già: una poltrona per due va bene al cinema. La politica è un’altra cosa.
Postilla fondamentale. Candidare non significa eleggere. È una mossa che serve ad avviare la trattativa: per il posto di capo dello Stato, di presidente del Consiglio con sede eventualmente vacante e per la maggioranza che deve sostenere il governo. Nel pacchetto ci sta anche la madre di tutte le riforme: quella elettorale.
Nella nebbia delle intenzioni e dei serpenti sotto le foglie, Salvini e Letta blindano il maggioritario, unica catena per tenere unite coalizioni più che slabbrate. Dunque una situazione “laconica”, direbbe Michetti. Quello che è stato asfaltato a Roma.
di Carlo Fusi
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