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crisi di governo

Tuonò e piovve

Draghi in Senato ha proposto un nuovo patto. Ma nessuno gli ha prestato ascolto, anche a costo di passare per i nemici del popolo.
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Tuonò e piovve

Draghi in Senato ha proposto un nuovo patto. Ma nessuno gli ha prestato ascolto, anche a costo di passare per i nemici del popolo.
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Tuonò e piovve

Draghi in Senato ha proposto un nuovo patto. Ma nessuno gli ha prestato ascolto, anche a costo di passare per i nemici del popolo.
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Draghi in Senato ha proposto un nuovo patto. Ma nessuno gli ha prestato ascolto, anche a costo di passare per i nemici del popolo.
Purtroppo i veti incrociati l’hanno avuta vinta. Il centrodestra di governo – vale a dire Matteo Salvini, Silvio Berlusconi e formazioni minori – non era pregiudizialmente contrario a Draghi. Ma a una condizione che il presidente del Consiglio non poteva accettare. E cioè l’estromissione dal governo di Conte e dei suoi cari. Difatti, sia pure con un accanimento degno di miglior causa, Draghi aveva detto e ridetto fino alla noia che il governo sarebbe andato avanti solo se i Cinque Stelle fossero rimasti forza di governo e non avessero ritirato i loro ministri per un eventuale appoggio esterno. A furia di tirare da una parte e dall’altra, la corda si è spezzata e sembra impossibile rimettere assieme i cocci. A questo punto un Draghi bis non rientra nella logica delle cose e altro non rimane che lo scioglimento delle Camere. Non già con questo governo, che si è sgonfiato come un palloncino. Sarà un nuovo governo tecnico a gestire le elezioni. Per comprendere come si è arrivati a tanto, occorre riavvolgere la pellicola cinematografica. E qui si registra un paradosso di stampo pirandelliano. Draghi si era dimesso la settimana scorsa non già perché sfiduciato dal Parlamento ma addirittura dopo una palese conferma della fiducia iniziale. Con la sola eccezione, peraltro assai dubbia, dei Cinque Stelle. Perché sul decreto Aiuti i deputati pentastellati la fiducia l’hanno votata. Dopo di che hanno abbandonato l’aula di Montecitorio quando si è trattato di votare il provvedimento. E se a Palazzo Madama i senatori pentastellati non si sono comportati come i loro colleghi deputati, è solo per motivi regolamentari. Perché il regolamento del Senato non prevede un doppio voto come alla Camera dei deputati ma un solo voto: sull’articolo unico del decreto sul quale il governo ha riproposto la questione di fiducia. Ed ecco il busillis: qual era stata la natura giuridica della crisi ministeriale? Si trattava di una crisi extraparlamentare (come quasi sempre si è verificato fin dai tempi della cosiddetta prima Repubblica) o di una crisi parlamentare? Nulla di tutto questo. La verità è che Draghi aveva vestito i panni di Sansone e – esasperato dai continui distinguo di questa o quella forza politica – era pervenuto a una inedita conclusione. Ma sì, che muoia Sansone con tutti i filistei. Ma poi Draghi, come l’araba fenice, sembrava dovesse rinascere dalle sue ceneri. Merito del presidente della Repubblica. Convinto che dovesse passare la nottata, non ha accolto – per non dire “ha respinto”, oh quale soavità di linguaggio! – le sue dimissioni e lo ha invitato a presentarsi in Parlamento per verificare la sussistenza della fiducia iniziale. In aula Draghi ha usato più il bastone che la carota. Ha parlato in maniera schietta alla nuora pentastellata perché le tante suocere della maggioranza intendessero bene. Basta ripicche. Basta distinguo. Basta “sì ma”. Ha proposto un nuovo patto. Ma nessuno gli ha prestato ascolto. A costo di passare per gli ibseniani nemici del popolo. di Paolo Armaroli

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