Panico nel Partito democratico dopo che Massimo D’Alema – il primo e unico presidente del Consiglio ex Pci che l’Italia abbia mai avuto – ha parlato della fine della malattia del renzismo nel Pd e di una ricomposizione necessaria. Come al solito i commenti della politica e della stampa hanno inseguito i gossip personali e le rivalità tra leader, senza badare alla sostanza del tema dirimente sollevato da D’Alema: capire quanto effettivamente ci sia di sinistra nell’attuale Partito democratico. Lo scoglio, infatti, per chi come lui viene dalla tradizione comunista, non riguarda solamente il renzismo ma anche il lettismo nipote, quello di Enrico Letta attuale segretario del Pd, che ha nel suo Pantheon politico di riferimento Beniamino Andreatta e non Ugo Pecchioli o – volendo restare alla storia democristiana – non ha ad esempio un Carlo Donat Cattin, la cui anima sociale era sicuramente spiccata e a sinistra. Perché il Pd diventi un partito compiutamente di sinistra – pare suggerire D’Alema, in questi mesi di governo Draghi sostenuto dal Pd con convinzione – e non una succursale di ex democristiani occorre quindi fare i conti seriamente su cosa sia stato il Pci e su cosa abbia rappresentato per la democrazia italiana. Questi conti – prima graziato da Tangentopoli, poi cambiato in fretta di nome e quindi impegnato contro Silvio Berlusconi – il Pci non li ha mai fatti e tantomeno li ha fatti il Pd. Perciò D’Alema non ha tutti i torti: merita critiche politiche ma non quella di non voler morire democristiano.
di Massimiliano Lenzi
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