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Conte e Fassino

Doppia rabbia

Una presenza fantasmatica si aggira per i palazzi della politica: la rabbia, sociale e individuale
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Doppia rabbia

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Doppia rabbia

Una presenza fantasmatica si aggira per i palazzi della politica: la rabbia, sociale e individuale
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Una presenza fantasmatica si aggira per i palazzi della politica: la rabbia, sociale e individuale
Dire uno spettro è troppo impegnativo, soprattutto storicamente. Diciamo allora che una presenza fantasmatica si aggira per i palazzi della politica: la rabbia, sociale e individuale. La prima è evocata da chi non ha deciso se esorcizzarla o assumerla come la madre di tutte le armi da usare contro gli avversari. Il campione di questa ‘postura’ è Giuseppe Conte. La cancellazione – ma con le dovute, confusionarie eccezioni: siamo pur sempre in Italia… – del reddito di cittadinanza ha vellicato gli animal spirit dell’ex presidente del Consiglio, generoso nello spargere allarmi e rischi. Fortunatamente, almeno per ora di tale tsunami malmostoso (a parte qualche protesta in quel di Napoli) vi sono scarse tracce. È un bene, perché a giocare agli apprendisti stregoni i pericoli da ipotetici hanno la tendenza a diventare reali e la storia insegna che chi va in giro col cerino acceso poi è il primo a finire con le dita bruciate. Ciò non significa che il tema della lotta alla povertà e del sostegno ai ceti più deboli vada rinnegato. Ma c’è anche un’altra rabbia, più personale, che spira nel Transatlantico di Montecitorio e procura brividi difficili da maneggiare soprattutto da parte di chi vorrebbe ma non può. È il disappunto, a tratti trasformatosi in stizza, di chi come Piero Fassino si è immolato sul patibolo più impopolare di tutti: la rivendicazione dell’emolumento per l’impegno di rappresentante del popolo. Una denuncia – seppur incompleta perché la cifra sbandierata risultava amputata di altri benefit – che voleva essere una lancia nel costato del populismo e della demagogia imperante e che invece ha sollevato prese di distanza, sarcasmi o, peggio, silenzi ipocriti da parte di chi pure quelle considerazioni condivide. C’è un nesso che unisce la reclamata rabbia sociale e la dirompente ira personale? Forse. E chissà, grattando la superficie di entrambe può venir fuori qualcosa di interessante e imprevisto. La rabbia sociale in Italia è merce rara: non viviamo la tormentata, dirompente suggestione dei cugini francesi che di casseur hanno le biblioteche e le strade piene: dai gilet gialli ai sanfedisti anti innalzamento delle pensioni, dalle banlieue fino ai sommovimenti anti-immigrazione. Ma sia a Parigi che a Roma – tanta o poca che sia – si tratta di una rabbia autoreferenziale che si esaurisce in sé stessa, frutto di uno spontaneismo, si sarebbe detto una volta, che non trova sbocchi politici possibili. È una rabbia anti-politica e anti-sistema che per sua stessa natura si esaurisce come un gigantesco falò che brucia sé stesso. Per avere successo e produrre effetti ci vorrebbe proprio ciò che i ribelli rifiutano: la politica. Nonché un partito capace di diventare collettore di quel disagio e trasformarlo in azione dentro il perimetro del sistema democratico. Lo stesso succede per la denuncia di Fassino, al contrario tutta politica eppure anch’essa priva di sbocchi. Non c’è dubbio che il tema della selezione della classe dirigente e della dignità del mandato parlamentare sia vitale. Ma è significativo che lo stesso partito di Fassino si sia affrettato a lasciare a quell’affondo soltanto la dimensione individuale, privata, egoriferita. Perché anche qui manca una forza politica capace di trasformare la denuncia in azione democraticamente adeguata. È la maledizione di quel pezzo d’Europa che ha immaginato (vero Macron, vero Grillo?) di spazzare via i partiti tradizionali – colpevoli anche di nefandezze ma con le radici storicamente ben piantate nei gangli della società – per fomentare idolatrie che alla fine hanno prodotto più guasti di quelli che si volevano sanare. Una lezione amara. In tanti, però, preferiscono voltare la testa dall’altra parte. Di Carlo Fusi

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