Dove finisce la libertà di manifestazione del pensiero
Fino a dove può arrivare la libertà di manifestazione del pensiero? Le leggi in materia lasciano ai giudici larghi (eccessivi?) margini di interpretazione delle norme
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Fino a dove può arrivare la libertà di manifestazione del pensiero? Le leggi in materia lasciano ai giudici larghi (eccessivi?) margini di interpretazione delle norme
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Fino a dove può arrivare la libertà di manifestazione del pensiero? Le leggi in materia lasciano ai giudici larghi (eccessivi?) margini di interpretazione delle norme
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Fino a dove può arrivare la libertà di manifestazione del pensiero? Le leggi in materia lasciano ai giudici larghi (eccessivi?) margini di interpretazione delle norme
Dove finisce la libertà di manifestazione del pensiero? Su questo non si raggiungerà mai un accordo, non solo perché abbiamo idee diverse ma perché le leggi in materia lasciano ai giudici larghi (eccessivi?) margini di interpretazione delle norme.
Apparentemente, l’articolo 21 della Costituzione garantisce la più ampia libertà di manifestazione del pensiero perché fissa un solo limite: sono proibite le manifestazioni del pensiero «contrarie al buon costume». In realtà, di limiti ve ne sono tantissimi ma non hanno quasi mai a che fare con il buon costume, nozione che l’evoluzione libertaria dei costumi stessi ha reso evanescente. I veri limiti alla libertà di manifestazione del pensiero derivano, innanzitutto, dalla necessità di bilanciare tale diritto con altri diritti o beni costituzionalmente protetti come l’ordine pubblico, l’onore, l’integrità e la dignità della persona. Ma derivano anche da un altro fattore: sono le leggi stesse, a partire dalla legge Scelba (1952) e dalla legge Mancino (1993), che lasciano un enorme margine di discrezionalità al singolo giudice, le cui decisioni possono benissimo essere – e spesso sono – diverse da quelle di un altro giudice. È quel che è accaduto, in particolare, con il saluto romano e più in generale con le manifestazioni di atteggiamenti, pensieri, convinzioni favorevoli al regime fascista. Comportamenti che per alcuni giudici rientrano nella libertà di riunione, associazione e manifestazione del pensiero, per altri configurano il reato di apologia di fascismo (legge Scelba), per altri ancora violano la legge Mancino contro la «discriminazione razziale, etnica e religiosa».
Si potrebbe pensare che le diversità di interpretazioni della legge siano una conseguenza logica inevitabile del meccanismo giuridico del bilanciamento fra diritti tra loro conflittuali. Nel caso di un processo per diffamazione contro un giornalista, ad esempio, un giudice potrebbe assegnare più importanza al diritto di cronaca del giornalista o al diritto a essere informato del pubblico, mentre un altro giudice al rispetto della dignità della persona. Ma non è sempre così. Nei casi come quello di Acca Larentia, così come in quelli analoghi accaduti in passato e su cui nei giorni scorsi si è pronunciata la Corte di Cassazione, la vera fonte dell’ambiguità non è la mera competizione fra due diritti costituzionalmente protetti, ma – più fondamentalmente – la circostanza che la legge usa dei concetti che, per loro natura, si prestano a letture soggettive. Al giudice non si chiede di accertare se gli imputati abbiano o non abbiano commesso determinati atti, ma se il loro modo di commetterli abbia determinato il concreto pericolo di esiti sovversivi o violenti: ricostituzione del Partito nazionale fascista, violenza e discriminazione nei confronti di membri di minoranze protette.
È un doppio salto mortale epistemologico, perché al giudice viene attribuita la facoltà di stabilire nessi causali e di farlo non fra due fatti entrambi accaduti, ma fra un fatto accaduto (il comportamento incriminato) e un evento ipotetico che potrebbe derivarne come conseguenza. Ma il giudice, di norma, non possiede gli strumenti per stabilire nessi causali ipotetici, come peraltro – nella maggior parte dei casi non banali – non li possiede il miglior scienziato sociale.
Visto in questa prospettiva, forse è più chiaro il senso della recente sentenza della Corte di Cassazione sul saluto romano. Contrariamente a quanto è capitato di leggere, la Corte non ha sdoganato il saluto romano, ma ha fatto una cosa molto più importante perché più generale. In sostanza ha detto: se volete perseguire le adunate e le manifestazioni del pensiero, dovete dimostrare che il comportamento dei manifestanti è effettivamente (ossia con alta probabilità) in grado di condurre a esiti come la ricostruzione del Partito fascista, la commissione di atti violenti, l’attuazione di pratiche discriminatorie. In poche parole: la Corte ha dato una sacrosanta tirata d’orecchi ai giudici. Che tuttavia risulterebbe più convincente se il legislatore, a sua volta, la smettesse di scrivere norme che assumono l’onniscienza dei giudici.
di Luca Ricolfi
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