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Europei

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Più che parlare di Mario Draghi, si dovrebbe parlare dei temi che lui discute. Ad oggi, totalmente ignorati da quelli che si definiscono europei

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Più che parlare di Mario Draghi, si dovrebbe parlare dei temi che lui discute. Ad oggi, totalmente ignorati da quelli che si definiscono europei

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Più che parlare di Mario Draghi, si dovrebbe parlare dei temi che lui discute. Ad oggi, totalmente ignorati da quelli che si definiscono europei

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Si parla di Mario Draghi, invece si dovrebbe parlare delle cose di cui lui parla. È siderale la distanza fra i temi posti all’attenzione di chi voglia immaginare un futuro prospero per l’Unione europea e i temi che agitano la campagna elettorale destinata a popolarne il Parlamento. Prima ancora della distanza qualitativa colpisce quella tematica. Il fatto che un’idea o una proposta siano autorevolmente sostenute non significa che si debba condividerle, ma discuterle nel merito. Mentre quella distanza non è un problema estetico, ma sostanziale e attinente al consenso. Senza consenso possono esserci idee giuste, ma non vincenti.

Draghi significa maggiore e più veloce integrazione europea, realizzazione piena del mercato unico dei capitali (ottima cosa per gli italiani, che sono grandi produttori di risparmio, e per le aziende italiane, che si finanziano oggi prevalentemente in banca), maggiore libertà di competere (con il mercato di riferimento che non è nazionale e neanche continentale, ma globale), investimento comune nella difesa e creazione di campioni europei nell’industria del settore (il che comporterà vedere crescere i campioni nazionali e subordinarsi i fornitori che si reggono solo grazie alla rendita delle commesse statali). Significa accendere debito comune per finanziare le evoluzioni tecnologiche, comprese quelle relative alla veloce riduzione delle emissioni di carbonio. E significa che per realizzare tutto questo è necessario non certo rinunciare a decidere assieme quando e come procedere in Ue, ma che decidere si deve, senza che vi sia l’alternativa di rinviare.

Ciò comportando la necessità di uscire dal vincolo dell’unanimità – che è bene resti per le questioni strettamente istituzionali – e anche immaginare aree a diversa velocità. Significa che non tutti devono sempre essere partecipi e che si può partire subito con chi è disposto da subito a starci. Questa non è una piattaforma tecnica, ma politica. Ed è qui che sorge il problema: certo che c’è un ruolo importante per i singoli Paesi e governi, ma i sistemi democratici devono creare il consenso presso gli elettori.

La campagna elettorale sembra accuratamente evitare questi temi. Mica solo in Italia. Le propagande vanno da affermazioni apodittiche e senza gran significato a proclami di volere bloccare cose che neanche esistono. Dal volere un’Europa (si chiama sempre: Unione europea) più bella, forte e ricca al volerle cioncare le mani, che entrerebbero dentro la casa o dentro la cucina o direttamente in camera da letto. Per il resto, negli stadi intermedi, si rimane sul brodino insipido, magari auspicando che sia più forte la famiglia popolare anziché la liberale o socialista, piuttosto che la nazionalista. Ma per fare che?

Facciamo un esempio italiano: esiste già il debito comune europeo e noi ne siamo i principali beneficiari; avere debito comune costituisce un vincolo che porta a maggiore integrazione; sicché sarebbe perfettamente logico che chi è contro maggiore integrazione sia anche contro il prendere soldi generati in quel modo; invece sono tutti favorevoli a incassare, ma poi c’è chi vuole scassare. Non ha senso. È interessante vedere i sondaggi relativi a chi sale e chi scende nelle intenzioni di voto – anche se sembrano sostanzialmente fermi – ma si tratta di preferenze che nulla hanno a che vedere con le scelte che gli elettori dovrebbero essere chiamati a fare.

Se si sottoponesse quel programma Draghi alle varie forze politiche è probabile che – al netto di averlo capito – la condivisione sarebbe ampia, ma si riceverebbero prima risposte in politichese spaesato per poi procedere alla rissa. Nel mondo liberaldemocratico la condivisione dovrebbe essere totale e unitaria, ma pare sia secondaria rispetto allo stabilire chi in quell’area ce l’ha più duro, il testone.

Così andando il consenso divorzia dal contenuto e le decisioni importanti divorziano dai risultati elettorali. Porta male. Nel migliore dei casi non porta a niente. Ci rende tutti meno europei.

di Davide Giacalone

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