Il disordine del (non) potere
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Da mesi si discute di riforma della giustizia e ora i disegni di legge del ministro Cartabia sono all’esame del Parlamento. I problemi sono tanti ma al fondo resta la questione che la giustizia sia diventata un potere che si contrappone a politica, Parlamento, governo e informazione.

Il disordine del (non) potere
Da mesi si discute di riforma della giustizia e ora i disegni di legge del ministro Cartabia sono all’esame del Parlamento. I problemi sono tanti ma al fondo resta la questione che la giustizia sia diventata un potere che si contrappone a politica, Parlamento, governo e informazione.
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Il disordine del (non) potere
Da mesi si discute di riforma della giustizia e ora i disegni di legge del ministro Cartabia sono all’esame del Parlamento. I problemi sono tanti ma al fondo resta la questione che la giustizia sia diventata un potere che si contrappone a politica, Parlamento, governo e informazione.
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Da mesi si discute di riforma della giustizia e ora i disegni di legge del ministro Cartabia sono all’esame del Parlamento. I problemi sono tanti, ma al fondo resta la questione che la giustizia sia diventata un potere che – nel complesso modello di una democrazia matura – si contrappone alla politica, al Parlamento, al governo e all’informazione.
Ma è giusto che la magistratura rappresenti un potere? Un indizio ci viene dalla stessa Costituzione che all’art 102 parla di «funzione» giurisdizionale e che all’art. 104 chiarisce che «La magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere». La magistratura quindi come ordine contrapposto agli altri poteri.
Ma perché ordine e potere? A spiegarcelo è lo stesso Montesquieu, cioè proprio colui che ha costruito teoricamente la divisione dei poteri per limitare l’assolutismo dei monarchi. Prima di allora la giustizia era esercitata dal re in forma assoluta e personalistica (spesso anche in nome di Dio), assieme a tutti gli altri poteri. La pagina di Montesquieu, scritta nel 1748, è di esemplare chiarezza. Nel Libro XI del sesto capitolo del suo “De l’esprit des lois” afferma: «Tutto sarebbe perduto se lo stesso uomo, o lo stesso corpo di maggiorenti, o di nobili, o di popolo, esercitasse questi tre poteri: quello di fare le leggi, quello di eseguire le decisioni pubbliche, e quello di giudicare i delitti o le controversie dei privati».
Questa è appunto la essenza della divisione dei poteri. Montesquieu prosegue con una pagina che merita di essere riportata per intero: «Il potere giudiziario non dev’essere affidato a un senato permanente, ma dev’essere esercitato da persone tratte dal grosso del popolo, in dati tempi dell’anno, nella maniera prescritta dalla legge, per formare un tribunale che duri soltanto quanto lo richiede la necessità. In tal modo il potere giudiziario, così terribile fra gli uomini, non essendo legato né a un certo stato né a una certa professione, diventa, per così dire, invisibile e nullo. Non si hanno continuamente dei giudici davanti agli occhi, e si teme la magistratura e non i magistrati. Bisogna inoltre che, nelle accuse gravi, il colpevole, d’accordo con le leggi, si scelga i giudici; o per lo meno che possa rifiutarne un numero tale che quelli che rimangono siano reputati essere di sua scelta. Gli altri due poteri potrebbero esser conferiti piuttosto a magistrati o ad organismi permanenti, poiché non vengono esercitati nei riguardi di alcun privato: non essendo, l’uno, che la volontà generale dello Stato, e l’altro che l’esecuzione di questa volontà».
Ecco il punto. La magistratura non deve essere un potere perché, proprio per evitare che si consolidi troppo, non deve essere permanente e stabile. Invece negli ultimi 250 anni non abbiamo assolutamente seguito le indicazioni di Montesquieu e non penso sia sufficiente una riforma dei criteri di elezione del Consiglio superiore della magistratura per evitare che il potere giudiziario sia «terribile per gli uomini», distorcendo i rapporti fra i poteri.
di Alfonso Celotto
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