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L’immunità senza il gregge 

La nostra campagna vaccinale prosegue a pieno ritmo ma sono in molti a ricordare il piano di “immunità di gregge” messo in atto l’estate scorsa e rivelatosi a dir poco confuso.
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L’immunità senza il gregge 

La nostra campagna vaccinale prosegue a pieno ritmo ma sono in molti a ricordare il piano di “immunità di gregge” messo in atto l’estate scorsa e rivelatosi a dir poco confuso.
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L’immunità senza il gregge 

La nostra campagna vaccinale prosegue a pieno ritmo ma sono in molti a ricordare il piano di “immunità di gregge” messo in atto l’estate scorsa e rivelatosi a dir poco confuso.
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La nostra campagna vaccinale prosegue a pieno ritmo ma sono in molti a ricordare il piano di “immunità di gregge” messo in atto l’estate scorsa e rivelatosi a dir poco confuso.
Nella nostra campagna vaccinale le cose vanno notoriamente meglio, in termini organizzativi e di percentuali che non in buona parte dei Paesi dell’Unione europea. Una ragione di più per tenere conto delle critiche cui tale campagna va talora incontro. Come, ad esempio, quelle espresse su “La7” da Tito Boeri, che ha giudicato mutevole e spesso contraddittoria l’azione delle autorità di fronte all’attuale fase del Covid. Se così fosse, veramente sorprendente apparirebbe la pazienza dagli italiani. E se la pazienza, come dato caratteriale del singolo, può essere considerata una virtù, essa non potrà mai essere vista come tale a livello collettivo, cioè come una virtù civica. ­Non appare perciò come un segno di virtù il modo in cui è stata accolta la scelta di applicare la scorsa estate nei confronti delle persone da vaccinare – in un momento difficile nel decorso della pandemia – una logica da gregge, livellatrice, in cui ogni caratteristica ed esigenza individuale viene cancellata. Perché è proprio questa la logica che si è vista quando si è trattato di utilizzare le scorte di un vaccino che attraversava una fase di impopolarità e probabilmente di ingiustificato rifiuto. Accadde allora che importanti istituzioni sanitarie – a Roma lo si vide in un centro di assoluta eccellenza come la Fondazione Santa Lucia – rimanessero per molte settimane all’oscuro di come e in che tempi le autorità regionali intendessero procedere con la vaccinazione dei loro ricoverati. Solo quando i media ebbero sollevato il problema, queste istituzioni ricevettero le dosi. Ma fu comunque una risposta insoddisfacente. Si sarà forse anche trattato di una insolita prova del fatto che in qualche caso la burocrazia può avere riflessi assai rapidi, ma si trattò in definitiva di una operazione che mostrò scarsa considerazione per quelli che potrebbero essere chiamati i ‘danni collaterali’ che venivano al tempo stesso provocati. Le dosi attribuite e iniettate ai pazienti come prima e seconda dose erano infatti tutte Astra Zeneca, cioè provenienti da quegli stock dalla data di scadenza ormai prossima e per i quali era in quel momento difficile trovare accettazione nel pubblico. E non si tenne conto del fatto che le istituzioni cui essi venivano destinati ospitavano pazienti di ogni condizione fisica ed età, mentre proprio in quel periodo questo prodotto era considerato pericoloso per gli ultraottantenni, cui era invece riservato il vaccino Pfizer. Tale danno collaterale era, peraltro, destinato a prolungarsi sino a oggi. Perché si è venuto a creare un gruppo di anziani la cui protezione antivirale è probabilmente ormai decaduta, che si trovano ora abbandonati a sé stessi e che debbono concorrere alla pari con i loro coetanei – cui è stato invece iniettato il vaccino ritenuto dagli scienziati più opportuno – nella caccia di una terza dose eterologa, ormai affidata alla loro personale iniziativa e condizionata dalle capacità di operare online. L’accettazione con un’alzata di spalle di un danno collaterale di questo tipo non è in alcun caso tollerabile. Soprattutto alla luce del principio di Emanuele Kant di vedere l’essere umano sempre come un fine e mai come un mezzo.   di Giuseppe Sacco

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