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La Lega prosciugata

Il misero risultato raccolto dalla Lega di Salvini alle elezioni europee 2024 è il frutto di scelte politiche sballate che hanno allontanato anche il tradizionale elettorato

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La Lega prosciugata

Il misero risultato raccolto dalla Lega di Salvini alle elezioni europee 2024 è il frutto di scelte politiche sballate che hanno allontanato anche il tradizionale elettorato

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La Lega prosciugata

Il misero risultato raccolto dalla Lega di Salvini alle elezioni europee 2024 è il frutto di scelte politiche sballate che hanno allontanato anche il tradizionale elettorato

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Il misero risultato raccolto dalla Lega di Salvini alle elezioni europee 2024 è il frutto di scelte politiche sballate che hanno allontanato anche il tradizionale elettorato

Fra le maschere più malinconiche del dopo elezioni europee, quella che si è incollata al volto di Matteo Salvini è la più scura. Il raffronto con cinque anni fa e l’etereo 34% è fuorviante. Quelle percentuali sono definitivamente archiviate e la cosa più dolorosa per il leader leghista è proprio questa: che il magro bottino raccolto ai seggi e il sorpasso da parte di Forza Italia non sono il reflusso di un consenso troppo alto per essere mantenuto bensì il risultato di scelte politiche sballate che hanno finito per far voltare le spalle al Carroccio a buona parte del suo tradizionale elettorato. Il serbatoio di voti del Nord risulta prosciugato dall’idrovora Meloni; il sogno di sfondare al Sud è naufragato senza rimedio.

Il vice presidente del Consiglio e ministro delle Infrastrutture insiste nel dire che l’ambito d’azione del suo partito dev’essere quello nazionale. Ma allo stato non si tratta più neppure di un wishful thinking bensì di una inafferrabile chimera. La realtà è che l’ex Capitano ha scelto di contrastare la forza d’urto di FdI scartando verso destra ma né i militanti né i leghisti storici hanno premiato un indirizzo così ‘estremo’.

Mesi e mesi passati a punzecchiare la presidente del Consiglio, a provare a mettere il cappello sulle iniziative governative, a difendere trincee scivolose e piene di insidie come il condono edilizio – per non parlare del Ponte sullo Stretto – hanno determinato una progressiva perdita di autorevolezza e di identità proprio perché gestite, diciamo così, con la bava alla bocca: più lanciafiamme mediatici che concretezza di risultati. La strisciante e tuttavia mai sopita contrapposizione con Giorgetti, gli affondi contro Zaia e le punzecchiature nei riguardi di Fedriga hanno sconcertato gli elettori, esacerbato i rapporti con il tessuto di piccole e piccolissime imprese del Settentrione, reso stranianti rodomontate le incursioni verso il Mezzogiorno.

Su tutto questo è piombata come un macigno la liaison con il generale Vannacci e la sua candidatura inalberata come vessillo capace di far recuperare il terreno perduto nelle urne. È andata esattamente al contrario. Vannacci, è vero, ha ottenuto una marea di preferenze ma paradossalmente quel bottino ha più nociuto che galvanizzato la Lega. Il generale è infatti privo di retroterra politico, risulta estraneo alle tradizioni del popolo di Pontida, configura un singulto di pancia senza il necessario propellente per sedimentarsi nell’immaginario collettivo dei seguaci del Carroccio.

Cosa succederà adesso? Difficile dirlo perché quando i tuoi votanti ti azzoppano sono guai seri. È qui, infatti, che si radica la difficoltà più grande di tutte: l’azione di governo. Di fronte a una Meloni sempre più forte e determinata e con l’ipoteca messa da Tajani sui rapporti di forza interni al centrodestra, Salvini è di fronte a un bivio. Se insiste nel piazzare mine sul cammino dell’esecutivo, se innalza l’effigie di Vannacci sulle bandiere della Lega rischia di mandare in fumo la residua credibilità e far diventare il generale il suo possibile sostituto anche a costo di spaccare il partito. Come pure immaginare di sgambettare Giorgia sul premierato una volta incassata l’autonomia differenziata può trasformarsi in un risiko ad altissima pericolosità. Se invece cambia registro e si mette sulla scia di Palazzo Chigi apre autostrade a FdI e FI, con i risultati che è facile immaginare.

Nella prima Repubblica, in un simile quadro, il segretario perdente sarebbe stato messo in minoranza e sostituito. Nei partiti (?) personali di adesso il percorso è più accidentato ma può comunque diventare obbligato. La ciliegina, avvelenata, sulla torta è la decisione di Umberto Bossi – il «rivoluzionario saggio», come lo definisce Giulio Tremonti – di votare il partito fondato da Berlusconi. Forse è l’inizio della fine della Lega, forse no. Ma è un colpo di maglio impossibile da assorbire.

di Carlo Fusi

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