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Legge anti-LGBT dell’Ungheria, un confronto scivoloso

La cosiddetta legge anti-LGBT dell’Ungheria non è un tema solo europeo, o solo “Orientale”, ma pienamente Occidentale
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Legge anti-LGBT dell’Ungheria, un confronto scivoloso

La cosiddetta legge anti-LGBT dell’Ungheria non è un tema solo europeo, o solo “Orientale”, ma pienamente Occidentale
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Legge anti-LGBT dell’Ungheria, un confronto scivoloso

La cosiddetta legge anti-LGBT dell’Ungheria non è un tema solo europeo, o solo “Orientale”, ma pienamente Occidentale
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La cosiddetta legge anti-LGBT dell’Ungheria non è un tema solo europeo, o solo “Orientale”, ma pienamente Occidentale
L’Italia è l’unico Paese dell’Europa Occidentale che non ha aderito alla causa legale intentata dai vertici europei contro la cosiddetta legge anti-LGBT ungherese (peraltro approvata due anni fa). La cosa è interessante in sé, perché mette a nudo una frattura clamorosa nell’Unione europea, che la spacca quasi perfettamente a metà: 15 Stati (tutti Occidentali, tranne la Slovenia) contro Orbán, 12 Stati (tutti Orientali, più Italia e Cipro) no. Se l’Ungheria dovesse essere condannata o espulsa dall’Europa, ciò avverrebbe senza la partecipazione di quasi la metà degli Stati che formano l’Unione, per una popolazione complessiva di 160 milioni di abitanti, oltre un terzo dei cittadini europei. Ma di che cosa parla la legge ungherese, che peraltro non è una legge vera e propria, bensì un complesso di emendamenti a leggi anteriori? Secondo i progressisti è una legge liberticida, discriminatoria, che limita gravemente i diritti LGBT. Secondo i conservatori, compresa Giorgia Meloni, è una legge che «vieta la propaganda gender nelle scuole, fatta da associazioni che non siano inserite formalmente nel sistema di formazione ungherese». In realtà la legge si occupa anche di altro, perché tende a proteggere i minorenni dalla propaganda e dall’attivismo LGBT in tutti gli ambiti, non solo nelle scuole, anche ad esempio nella pubblicità, nella tv, persino nell’editoria. Il punto importante, però, è che il nucleo della legge non sono i diritti LGBT, bensì l’educazione dei minori. Esattamente come in America, dove meno di un anno fa lo Stato della Florida (governato dal repubblicano Ron De Santis) ha varato una legge – bollata dall’opposizione come “Don’t say gay” law – per proibire la trattazione di argomenti come l’orientamento sessuale e l’identità di genere negli ordini scolastici da 4 a 12 anni. Una legge, peraltro, che sotto varie forme esiste anche in altri Stati americani. Dunque il tema non è solo europeo, o solo “Orientale”, ma è pienamente Occidentale. Tutto questo rende estremamente scivoloso il confronto fra progressisti e tradizionalisti. E lo rende scivoloso per entrambi. Ai progressisti pare sfuggire che, fra i diritti umani, esistono anche quelli proclamati dalla “Dichiarazione Universale dei Diritti Umani” del 1948. Che all’articolo 26, comma 3, recita: «I genitori hanno diritto di priorità nella scelta del genere di istruzione da impartire ai loro figli». Da questo punto di vista, le norme volte a proteggere i minorenni da contenuti controversi, diffusi da operatori scolastici e attivisti, appaiono perfettamente giustificate. Ai tradizionalisti, d’altro canto, pare sfuggire che, quando – come nel caso ungherese – divieti e limitazioni tendono a investire anche la televisione, la pubblicità, l’editoria, allora la pretesa di proteggere i minori di 18 anni finisce per confinare pericolosamente con la censura. Il che è paradossale, se pensiamo alla (benemerita) battaglia che, da anni, la destra combatte per la libertà di pensiero, contro le follie del politicamente corretto. Il caso ungherese, così, ci mostra i limiti culturali di entrambi i mondi. Ai progressisti, paladini dei diritti dell’uomo, risulta difficile condurre la loro battaglia fino in fondo, accettando anche l’articolo 26 della “Dichiarazione Universale dei Diritti Umani”. Ai tradizionalisti, nemici giurati del politicamente corretto, risulta difficile schierarsi risolutamente, senza se e senza ma, a difesa della libertà di espressione. Segno che la battaglia in corso fra i due campi è una battaglia culturale vera, in cui nessuna delle due parti ha il monopolio della ragione. Di Luca Ricolfi

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