L’Europa in gioco
La posta in gioco non è il Donbass e neanche l’Ucraina. La posta è l’Europa, siamo noi. È una partita politica, giocata gettando le armi sul tavolo. L’obiettivo ultimo è ricreare la condizione il cui venir meno è considerata, da Putin, la più grande tragedia della Storia.
L’Europa in gioco
La posta in gioco non è il Donbass e neanche l’Ucraina. La posta è l’Europa, siamo noi. È una partita politica, giocata gettando le armi sul tavolo. L’obiettivo ultimo è ricreare la condizione il cui venir meno è considerata, da Putin, la più grande tragedia della Storia.
L’Europa in gioco
La posta in gioco non è il Donbass e neanche l’Ucraina. La posta è l’Europa, siamo noi. È una partita politica, giocata gettando le armi sul tavolo. L’obiettivo ultimo è ricreare la condizione il cui venir meno è considerata, da Putin, la più grande tragedia della Storia.
La posta in gioco non è il Donbass e neanche l’Ucraina. La posta è l’Europa, siamo noi. È una partita politica, giocata gettando le armi sul tavolo. L’obiettivo ultimo è ricreare la condizione il cui venir meno è considerata, da Putin, la più grande tragedia della Storia.
La posta non è il Donbass. Non è neanche l’Ucraina. La posta è l’Europa, dai Balcani al Baltico, passando lungo i confini tedeschi. È una partita politica, giocata gettando le armi sul tavolo. L’obiettivo ultimo è ricreare la condizione il cui venir meno è considerata, da Putin, la più grande tragedia della Storia: non tanto far rinascere l’Unione Sovietica ma far rinascere l’impero russo, capace di esercitare influenza al di là dei propri confini, condizionando una fascia di sicurezza che chiede la denuclearizzazione dei Paesi intermedi.
Stanno parlando di noi. In questa partita l’Occidente si è dimostrato unito, al contrario di quanto vanno strologando taluni, e questo ha impedito quel che solo la propaganda russa pretende di mostrare, ovvero un successo diplomatico acquisito per il Cremlino. È questo che spiega il tentennamento dei giorni scorsi e l’incrudelirsi di queste ore. Pensavano fosse più facile, che gli europei capissero d’essere la posta e non avessero nessuna voglia di sacrificare i loro (i nostri) interessi economici sull’altare del contenimento dei russi.
Ma qui, in Europa, si è ragionato in modo diverso. Prima Emmanuel Macron, presidente francese e presidente di turno dell’Unione europea, e poi Olaf Scholz, cancelliere tedesco, hanno chiarito ai russi che non si sarebbero discostati dagli Stati Uniti. Non certo per una presunta ‘fedeltà’, che questi son linguaggi che hanno corso solo presso gli occidentali che hanno in antipatia l’Occidente, ma per ragioni di sicurezza: solo l’ombrello Nato la garantisce e, con quella, garantisce la nostra stessa sovranità.
Cosa va a fare, allora, il nostro presidente del Consiglio, Mario Draghi, a Mosca? Solo a ribadire quanto è stato già detto? Anche, ma non solo. Egli è considerato il leader europeo più solido e, al tempo stesso, il più convintamente europeista nell’essere il più vicino agli americani. Va a mantenere aperto il dialogo e ad avvertire che farsi sfuggire le cose di mano è pericolosissimo per tutti.
Ci vuol niente a che nel Donbass – dove l’Ucraina ha perso ventimila uomini, dicasi ventimila, nello scontro con i russi – qualcuno faccia sembrare che un ucraino ‘vendica’ la Patria e ammazza qualcuno, magari bambini russofoni. Ci vuol nulla a che una cosa del genere sia utilizzata dai russi per innescare la marcia di carri armati il cui motore non si è mai spento, ma ci vuol pure nulla a che succeda per forzare la mano a quei russi che hanno seri dubbi questa avventura porti fortuna. La parola alle armi non è stata tolta. Il loro peso è evidente nel negoziato politico, ma dovrebbero esercitarlo senza essere utilizzate. Se una sola dovesse far partire un colpo, se un solo cingolato dovesse solcare il terreno sbagliato, segnerebbe non la fine del negoziato ma la capitolazione di una delle parti.
Putin non può tornare indietro come se fosse stata una scampagnata, perché avrebbe problemi enormi alle sue spalle. Ammesso che non sia lui stesso a guidare l’offensiva e ad avere bruciato le vie negoziali, compresa l’espulsione del diplomatico statunitense che materialmente stava trattando, per forzare lui la mano e andare avanti. Dalle nostre parti, in Europa, per molti aspetti anche negli Stati Uniti, ci si è abituati all’idea che la guerra sia impossibile, se non sotto la forma di massacro locale, delimitato. Da qui anche la comparsa dei vaniloqui pacifisti.
Ma il messaggio russo è opposto: mettetela nel conto, perché non è più vero che l’escalation porterebbe al nucleare. A meno che l’altro, l’Occidente, non sia disposto a impegnarsi fino in fondo. E i russi lo escludono. Loro stanno giocando una partita per la Storia, noi siamo la posta perché, per loro, pur non tornando a un’Europa divisa occorre tornarci da un punto di vista militare, con la metà che fu dominio sovietico che sia disarmata. Giocano vedendoci fuori dalla Storia.
Noi non possiamo ammetterlo e quel “noi” è, necessariamente, un unico soggetto. Che fin qui ha retto assai bene, che deve prepararsi a un tempo lungo, che non può consentire esistano quinte colonne vendute o affaristiche, che non deve pensare di stravincere perché sarebbe un errore, che deve lasciare aperte le vie che i russi stanno chiudendo una dopo l’altra, ma che no, non può concedere ai russi l’Europa indebolita e ai cinesi il Pacifico ricolonizzato. Perché sarebbe la fine.
di Davide Giacalone
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