Meloni, per governare serve calma
Meloni, per governare serve calma
Meloni, per governare serve calma
Funziona così. Se le cose procedono nel verso desiderato, Giorgia Meloni si compiace di usare toni concilianti. Invece appena le acque s’increspano e le polemiche serpeggiano (e tanto più se poi esplodono) la presidente del Consiglio ricorre all’arma che le è più congeniale e che meglio sa usare: sguaina la Durlindana della Tigna. A Roma e specialmente alla Garbatella, dove la Meloni si è fatta personalmente e politicamente le ossa, la tigna non è un difetto. Al contrario è spinta motivazionale, rocciosità caratteriale, determinazione nelle scelte: quasi sempre la migliore se non l’unica strada per arrivare al traguardo. E specialmente per una leadership al femminile dove tutto è più difficile e devi sempre dare dimostrazioni di capacità. In questo senso anche un’impulsiva malmostosità aiuta a essere vincenti.
Solo che dal Teatro Palladium, costruito dal fascismo nel 1927 nel cuore del quartiere un tempo rosso, la distanza con Palazzo Chigi – seppur chilometricamente contenuta – risulta abissale in termini di doveri, opportunità e responsabilità. Per intenderci: se varchi il portone del governo, la tigna la devi lasciare fuori altrimenti invece che un atout diventa una zavorra. Giorgia però non deve esserne così convinta. La settimana scorsa, in Parlamento, alla vigilia della riunione del Consiglio europeo, se l’è presa con mezzo mondo e col suo modo – chiamiamolo così – marcatamente ruvido ha bastonato a raggiera la Ue, il commissario Paolo Gentiloni, i governi precedenti quanto a eventuali ritardi sulla messa a terra del Pnrr e le opposizioni tutte, per poi attaccare l’antiproibizionista Magi sulla liceità o meno di fumarsi una canna. Seguendo insomma il copione “Io sono Giorgia” eccetera eccetera.
Naturalmente nelle ore successive, a Bruxelles, i decibel si sono attutiti, gli atteggiamenti hanno indossato il mantello del bon ton istituzionale, le questioni sono state rappresentate con più rotondità e sussiego. Senza per questo perdere puntigliosità e risolutezza, anche se con Varsavia e Budapest i risultati sono stati inferiori alle necessità.
Si dirà: nulla di nuovo sotto il sole. Meloni non fa altro che ripercorrere il canovaccio usato del capo (o capa?) di lotta e di governo, come hanno fatto in tanti prima di lei. Vero, ma così ci si allontana dal nocciolo del problema. Intanto perché “di lotta e di governo” è una locuzione che non ha portato fortuna a chi l’ha inventata e ancor meno a chi vi ha nel tempo fatto ricorso. Inesorabilmente, il risultato è stato di confondere gli elettori a cominciare dai propri, finendo con l’allontanarli. E poi perché con Meloni è diverso e se non si coglie la portata di questa diversità ogni valutazione risulta falsata. Per dove è arrivata e per dove vuole rimanere, la fondatrice di FdI non può recitare due parti in commedia, non può esibire il double face a seconda delle convenienze o magari degli stati d’animo. Meloni può essere soltanto di governo perché è questo che le hanno chiesto gli elettori, questo il compito che le hanno assegnato il 30% degli italiani che si sono recati ai seggi: quello di lotta non superava il 4%.
Non basta. Il discorso non vale soltanto per gli appuntamenti istituzionali o i momenti di ruolo. Vale anche e soprattutto nella conduzione degli affari di governo e del rapporto con gli alleati. La convenienza per la presidente del Consiglio sta nell’assumere posture di dialogante confronto. E lasciar bollire gli altri nel loro brodo. Se si impania nel gioco delle polemiche giornaliere, se guerreggia con Salvini o infilza Tajani scalfisce il suo status. Con effetti sminuitivi anche al di là delle Alpi. Per governare ci vuole calma e gesso. Doti rare: perfino alla Garbatella le sale biliardo stanno chiudendo.
di Carlo Fusi
La Ragione è anche su WhatsApp. Entra nel nostro canale per non perderti nulla!
Leggi anche