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meloni e schlein

Meloni e Schlein donne sole al comando

Meloni e Schlein si mostrano come donne sole al comando. Questo però deve innescare un concreto senso di responsabilità che le due leader non hanno ancora dimostrato
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Dunque è assodato: nello scenario politico italiano la donna sola al comando rappresenta un must irresistibile, un format obbligato. È per questo che dai banchi della sinistra Elly Schlein ha gridato alla presidente del Consiglio Giorgia Meloni: «Ora è lei al governo, io sono l’opposizione». Che era anche un modo per dire: scurdammoce o’ passato, adesso vediamocela solo io e te.

Peccato che il passato non sempre passa e lascia tracce, a volte imbarazzanti. Come accaduto alla Meloni a proposito delle Fosse Ardeatine con quel «erano italiani», come se i 335 martiri fossero stati tirati a sorte e non scelti – peraltro da altri “italiani” – per la loro razza o per le posizioni antifasciste. Oppure alla Schlein laddove, dopo aver tanto strombazzato di condivisione, per scegliere i capigruppo di Camera e Senato impugna il bastone di comando usato (horribile dictu) dal vituperatissimo Renzi: decido io e basta.

Sarà. In ogni caso quel che conta è il presente. E anche qui il format “sola al comando” propone singolari coincidenze. Tipo l’incapacità della Meloni di tenere i nervi saldi senza sbottare quando nel dibattito s’insinua il tema identitario della destra; o anche della Schlein quando, invitata a dire sì o no al termovalorizzatore a Roma, s’inerpica su siderali e arabescheggianti vette oratorie pur di evitare di prendere posizione.

La realtà è che “sola al comando” non è un mieloso vezzeggiativo: piuttosto una responsabilità che impone comportamenti politicamente obbligati ancorché urticanti. Primo fra tutti l’abbandono dello schema-partito, reperto del tempo che fu che sarà pure democratico (beninteso fino a un certo punto, specie se personalizzato dal sartoriale consenso) ma impaccia assai e mal si concilia con la visibilità d’azione e il totem del settimanale sondaggio. Così Meloni, una volta ascesa al soglio di Palazzo Chigi, di FdI (e di collegialità) ne vuole sentir parlare poco e meglio ancora nulla: specie quando si tratta di scelte di governo e sottogoverno (vedi capitolo nomine) o di temi che impattano sulla sensibilità dell’opinione pubblica, come guerra o immigrazione. In questi casi meglio abbandonare la forma-partito e indossare la più adatta veste leaderistica.

Per cui la Meloni fa e disfa sul Pnrr o sul Mes, accentrando quei poteri che per la furbesca ipocrisia istituzionale – così spendibile nei talk show o nelle conferenze stampa, beninteso quando ci sono – diventano cabine di regia o coordinamenti coattivi. Mentre la segretaria del Pd la forma-partito preferisce spedirla in soffitta dove ben mimetizzato si nasconde il riformismo, visto che il partito l’aveva sonoramente bocciata e poi sono arrivate le truppe delle primarie a rovesciare un verdetto che aveva un eccessivo sapore d’antan.

Insomma, quel format scavalca la trincea fra maggioranza e opposizione per diventare sorellanza di obiettivi e gemellaggio di metodologie. In fondo nessuna sorpresa: anche la storia (con la maiuscola o no, fate voi) va in quella direzione. Non a caso l’una è la prima donna di destra diventata capo del governo; l’altra è la prima donna di sinistra che potrebbe intestarsi una clamorosa staffetta istituzionale.
Certo, poi ci vuole la politica. La quale, cacciata a calci dalla porta, rientra – e alla grande – dal portone. Per cui, tanto per dire, sull’immigrazione alla Signora in Nero tocca riavvicinarsi a quel fighetto di Macron e rivolgersi alla Ue fino a ieri male assoluto; alla Signora in Rosso, prima o poi e per forza, tocca invece sillabare qualcosa su produttività e/o alleanze elettorali. Perché la sorellanza è decisiva. Ma anche tanto faticosa.

Di Carlo Fusi

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